ANDREW TUTTLE  "Andrew Tuttle"
   (2018 )

La bellezza di certi dischi risiede nella capacità che hanno di raccontare qualcosa anche senza parole. Nel trasportarti altrove, in qualche non-luogo che nessuno conosce, una culla dove rinascere in quel preciso istante. Certi artisti sanno intercettare onde, sensazioni, pensieri fuggevoli; danno colore alle fantasie più delicate, solari o notturne, docilmente quiete o scosse da una sommessa agitazione.

Andrew Tuttle è un compositore e musicista australiano con sede a Brisbane, sua città d’origine: questo opus eponimo, il terzo dal 2015, raccoglie otto tracce scritte e registrate fra il 2016 ed il 2017, pubblicate soltanto nel maggio 2018 per Someone Good, costola della ben nota Room 40 (Norman Westberg, Haco, Nicola Ratti, Ross Manning tra gli altri).

La cristallina purezza dell’album è tutta racchiusa nella garbata uniformità del disegno celato sotto la superficie di questa musica dilatata, evocativa, rarefatta ed impalpabile. Ha tinte tenui da acquarello e la fervida fantasia necessaria a racchiudere in trentatre minuti inafferrabili - eppure palpitanti - le trame eteree e diafane di Mark Kozelek, di Pat Metheny, dei Desertshore di Phil Carney (emblematici i due minuti quasi inconclusi di “Meterological Warning”).

Lavorando di cesello sulle intricate tessiture armoniose del banjo e della chitarra acustica, Andrew dispensa una cascata di suoni liberi a stento incasellati nell’inconsueto melange che ne scaturisce: una sorta di inedita country-drone-ambient music dal sentore laid-back, una pigra elegia bucolica che invita ad un ascolto rilassato e pacifico. Da godere come un blocco unico attraverso il susseguirsi di piccole variazioni più emozionali che formali, si apre sulle note distillate di “Sodermalm Syndrome” coi suoi disturbi di fondo ed un banjo da subito protagonista, si dipana lungo il mood campestre di “Transmission Interruption”, screziata da inserti di morbida elettronica e da un fingerpicking ostinato, plana sui sei minuti visionari e sospesi di “Boarding Zone”.

Colonna sonora ideale indifferentemente per una gita senza meta attraverso campagne sconfinate o per il prossimo travelling without moving sul divano del salotto, questo prezioso intarsio muto si chiude con “The Coldest Night”, quattro minuti e mezzo di borborigmi psych à la Flying Saucer Attack, un vortice space che ricorda le textures di Tim Hecker, gorgo di synth in crescendo su una stasi monocorde circolare suggellata dalla tromba – distante, ma rovente - di Joel Saunders.

Sinuoso come le anse di un fiume placido, una invocazione silenziosa, una preghiera, un sogno ad occhi aperti: questo disco può essere ciò che vuoi, è sufficiente plasmarlo cedendo al desiderio del momento, lasciandosi andare, inseguendo una nuvola passeggera. Buon viaggio. (Manuel Maverna)