FRANCESCO GUCCINI "Metropolis"
(1981 )
La città, vista nel suo aspetto quotidiano e attuale, ma soprattutto nel suo valore simbolico, legato ad un passato più o meno illustre. E’ questo il tema conduttore di “Metropolis” (1981), quasi un concept-album, uscito con circa dieci anni di ritardo sulla moda dei dischi “a tema”. Ma si sa che Guccini da quarant’anni delle mode se ne sbatte allegramente (“ne abbiam visti geni e maghi uscire a frotte per scomparire…”), ed è proprio questo che gli ha consentito di essere credibile e attuale per una vita intera, sia pure con qualche recente e inevitabile segno di stanchezza. “Metropolis” è un ottimo disco, appena macchiato da due brani in tono minore. E’ anche un discreto passo avanti nella lunga e faticosa evoluzione musicale del cantastorie di Pàvana, anche se da questo punto di vista è più decisivo “Signora Bovary”. Un po’ sono i musicisti che accompagnano Guccini che migliorano il loro affiatamento disco dopo disco, un po’ è la presenza del folle ma geniale chitarrista Jimmy Villotti, noto per il suo fantasioso apporto alla storica band di Paolo Conte, fatto sta che il suono di questo disco è più curato e gradevole rispetto ai precedenti, “Amerigo” compreso. L’inizio è fulminante: “Bisanzio” è in assoluto una delle migliori composizioni gucciniane di sempre. Prima di tutto ha un testo magnifico, pieno di metafore illuminanti, tali da incatenare l’ascoltatore e da coinvolgerlo nel profondo smarrimento del sapiente e mago Filemazio, che cerca di trarre un auspicio, un oroscopo, dall’osservazione degli astri come dall’osservazione della città di Bisanzio, “simbolo insondabile, segreto e ambiguo come questa vita” , città che non a caso si trova dove la terra “si perde dentro al mare fino quasi al niente, e poi ritorna terra e non è più Occidente”, tanto per citare solo qualche verso dei più significativi. Come se non bastasse, a tutto ciò è abbinata una musica a dir poco ispirata, che offre suggestioni al tempo stesso antiche e misteriosamente orientaleggianti. Vero capolavoro, e non è da meno “Venezia”, che (sorpresa) è solo in parte gucciniana, anche se lo sembra davvero al 100%. Sarà lo sguardo attento e commosso sulle due tristi vicende parallele, quella della città che muore a poco a poco e quella della giovane Stefania, che muore contemporaneamente di parto in un grande ospedale dando alla luce un bambino il cui destino sarà “comprare o smerciare Venezia”… sarà quel tocco d’ironia che solo Guccini sa infilare anche in una storia così triste (“San Marco è senz’altro anche il nome di una pizzeria”)… però la canzone è firmata Bigi-Guccini-Alloisio. L’ultimo dei tre è coautore anche della non memorabile “Milano (Poveri bimbi di)”, dai concetti sicuramente condivisibili, sorretti però da un testo non troppo ispirato, oltre che da una musica insolitamente rock, ma piuttosto scontata. Definirei un brano minore anche “Black-out”, che però almeno ha il pregio di associare ad una banale filastrocca un testo divertente e al tempo stesso significativo, la cui morale innnegabile è che certe “comodità” come la TV e altri elettrodomestici, se ci si pensa bene, non sono poi così indispensabili. Ma restano altri capolavori, e uno di questi è senza dubbio “Bologna”, dichiarazione di odio-amore per la città in cui Guccini si è formato culturalmente, al comodo riparo dei suoi “portici-cosce”, simbolo a tinte forti di apertura (“Parigi in minore”,“ombelico di tutto”), ma anche di grettezza (“ricca signora che fu contadina”, ”volgare matrona”). Una città che dietro il suo noto volto molle e godereccio nasconde un’insospettata e cinica durezza: “Bologna capace d’amore… capace di morte” è un chiaro riferimento alla strage della stazione, avvenuta l’anno prima. Anche qui il testo è degnamente supportato da una musica appropriata, con in grande evidenza, oltre alle solite chitarre, un suggestivo flauto andino. Da sconsigliare assolutamente ai depressi è “Lager”, con la sua inquietante e ricorrente domanda: “Cos’è un lager?”, la cui risposta è raggelante, perché un lager non è solo uno di quelli tristemente consegnati alla storia dal “nazi infame”, ma è più in generale “la consueta prassi del terrore” e può essere “in un ghetto, fabbrica o città”, e soprattutto (attenzione!) esiste ancora oggi. Per quanto ossessionante, la domanda “Cos’è un lager?” finisce per trovare più di una risposta (anche troppe…), mentre un’altra domanda, più rabbiosa, è destinata a rimanere là in fondo al testo come un’eco che si propaga all’infinito: “Chi tra voi kapò, chi vittima sarà, in un lager?”. Aggiungiamoci anche una musica tragicamente consona al testo, e si può ben comprendere come questa canzone sia capace di far lacrimare i macigni. Meno toccante, ma notevole anche “Antenòr”, bella storia ambientata in una leggendaria pampa argentina, protagonista un uomo colpevole solo di essere abile con il coltello, e costretto per forza a mostrare la sua bravura, fino ad uccidere per non essere a sua volta ucciso, e quindi a fuggire. Un’amara riflessione sull’ineluttabilità del destino, contenuta in una ballata acustica con ricchi arpeggi di chitarra, a cui si può trovare il solo difetto di una lunghezza eccessiva. Cosa che non si può dire dell’intero disco, assai spilorcio nei suoi 31 minuti, anche se per buona parte si tratta di un vero concentrato di classici gucciniani. (Luca "Grasshopper" Lapini)