FRANCESCA INCUDINE  "Tarakè"
   (2018 )

“Tarakè” è musicalmente un rimedio al dolore proposto da Francesca Incudine, giovane cantautrice siciliana, che trova anche nel dialetto la sua alta capacità espressiva. La Sicilia è una terra martoriata da contrasti e mali secolari, ma che sa offrire nelle piccole cose dei grandi miracoli. Non è un caso che “Taraké” prenda origine dal “Dente di Leone” o “Taràssaco”, un fiore dalle proprietà officinali molto efficaci. “Tarakè”, nome greco che indica un “rimedio al disordine, scompiglio o turbamento”, è quindi questo viaggio espressivo in 11 tracce che, partendo dal dolore, cercano di curarlo attraverso il racconto sottoforma di poesia, musicalità e semplicità espressiva data dall’autenticità dialettale. Un disco che nasce a pelle, osservando, assaporando, odorando, respirando profondamente, toccando, ascoltando, e che porta con sé tutte le emozioni che nascono dai sensi che vengono coinvolti. L’opening track è “Rosa Spinusa”, fiore affascinante, delicato ma che porta con sé, quasi per proteggersi, le sue spine, segno di un dolore che difficilmente si sopisce. Eppure la rosa è simbolo di primavera, di profumi e sensazioni nuove che lasciano alle spalle l’inverno. Musicalità e voce sono delicati come i petali di una rosa che inebria col suo profumo e attira a sé uno sguardo di ammirazione. “Tarakè” è fresca come l’aria, vivace, liberatoria, ma è anche intima nel racconto che Francesca fa di sé: “una chitarra e un foglio” per fare sempre il meglio di ciò che si può per curare un dolore. “Di Notti Nasciunu I Canzuni” è dolce come una ninna nanna, sognante come un cielo stellato, delicata come una brezza leggera che smorza la calura dell’estate: di notte, mentre fuori si dorme profondamente, dentro si ingarbugliano, si intrecciano, si mescolano i pensieri. Un altro giorno è andato, come un ladro silenzioso, ed è di notte che si ascolta il rumore del silenzio e del cuore. “Quantu Stiddi” suona sbarazzina e leggera come la voce di Francesca, mentre “No Name” mette da parte l’interiorità dei pensieri per aprirsi al racconto narrato di una storia troppo spesso dimenticata: era il 1911 quando la fabbrica di “Camicette bianche” della “Triangle Waist Company” di New York prese fuoco uccidendo 146 operai tra cui 129 donne, molte delle quali immigrate italiane di origine siciliana. Suoni metallici percuotono l’atmosfera mentre si descrive il lavoro in fabbrica e la condizione delle donne che vi lavoravano: schiene curve, capelli raccolti delle piccole sarte. Il racconto di una donna, che lascia la sua amata terra, in cerca di fortuna, solcando l’oceano, portando con sé le valigie di cartone e tanti sogni. Lo scenario cantato in italiano lascia il posto all’espressione dolorosa del dialetto e alla voce di una donna che urla mentre brucia viva nel rogo spaventoso: non luminose stelle cadenti, ma corpi che prendevano fuoco stramazzanti al suolo illuminavano quella tragica notte. “Gutierrez” ha una intro acustica che lascia entrare la spensieratezza facendo ritornare il clima su atmosfere sonore più distese in cui navigare come sulle onde del mare, mentre in “Linzolu Di Mari” predomina uno stato d’animo tetro, cupo, attutito dalla voce dolce di Francesca. Una barca si allontana di notte, sotto lo sguardo attento della luna riflessa sul mare e degli scogli che frenano onde minacciose. Un uomo muore in mezzo al mare con il richiamo al cimitero che popola gli abissi e un grido che diventa preghiera: “Signuri non sacciu chi fari, stu sali mi ‘ntrasi ‘ntè vini”, e si ode un lamento che penetra nelle ossa, nelle viscere, nel sangue e giunge fino all’anima, scuotendola. “Dormi Figghiu” è la dolce ninna nanna che una madre canta al proprio figlio per preservarlo dal dolore e dalla paura. Dolcezza infinita nelle corde di una chitarra e lui c’è sempre… il mare… che culla i pensieri di un figlio assorto nel proprio sonno, mentre la madre per proteggerlo prega “U Signuri”. “Frore In Su Nie” è un omaggio all’indimenticato e indimenticabile Andrea Parodi dei “Tazenda”: arrangiamenti e voce dense di pathos che non possono non toccare l’ascoltatore conducendolo per mano verso una condizione di estasi emotiva. “Na Bona Parola”, energica e beffarda, è la traccia più breve di tutto l’album che fa della saggezza popolare (“na nuci dintra un saccu nun po' fari rumuri”) e dei consigli di una madre (“me matri mi dicìa”) il proprio incipit verso una buona parola e di tanta fortuna e porta all’ultimo capitolo di questo album intenso. “Comu Fussi Picciridda”. In quasi otto minuti, è un tuffo nel passato di una bambina divenuta ormai donna. Fede e musica si intrecciano nel silenzio di una casa piena di ricordi. Una canzone cantata “come se fossi piccolina”, tenera, dolce e che racchiude sentimenti autentici. In chiusura la voce di una bambina, che narra a suo modo la favola di cenerentola e si congeda dal suo pubblico con un semplice “Buonanotte”. L’antico rimedio “al subbuglio interiore” è l’amore, il “Tarakè” e i suoi effetti benefici sul proprio cuore, pronto a condurlo dalle valli oscure del dolore a quelle enormi distese di campagna in cui si sprigiona l’aria della primavera. Il disco della cantautrice siciliana è un lavoro autentico, vissuto col cuore di chi sa che l’unico rimedio al dolore è l’amore, quale balsamo per curare tutte le ferite. Musicalmente dolce, a livello interpretativo denso di emozioni è un toccasana che, una volta ascoltato, mette dentro la pace dentro l’anima. (Angelo Torre)