BAD STREAM  "Bad Stream"
   (2018 )

Elettronica introversa: così si potrebbe riassumere la cifra stilistica che emerge dall'omonimo lavoro di Bad Stream, appena uscito per Antime Records. Una mistura spigolosa di suoni sintetici e di chitarre rock caratterizza i brani, rievocando gli esperimenti dei Nine Inch Nails. La voce però è più rotonda di quella di Trent Reznor, dando morbidezza agli angoli acuti dei suoni proposti. Insolita la durata dell'Lp, che con 11 tracce supera i 70 minuti. L'ascolto richiede molta attenzione fin dal primo pezzo, "Transition", che è un'introduzione di oltre 8 minuti molto statica, un'atmosfera cyberpunk, con voci robotiche e asettiche che arrivano a sorpresa; un incipit che non lascia prevedere gli sviluppi successivi molto diversi. La chitarra distorta incontra l'elettronica oscura in "Already dark", dove la drum machine è minimale, la cosa più importante sono gli appoggi di pianoforte e la voce, che rendono il tutto molto evocativo e futuribile. Anzi, ci ambienta nel futuro che in realtà stiamo vivendo adesso (dando per scontato che nella cultura di massa, l'eterno presente è rappresentato dal benessere occidentale degli anni '80, dove si avvertiva la "fine della Storia"). L'armonia è maggiore, suona speranzosa al contrario dell'aggressività del sound pesante e colmo di noise verso la seconda metà. Un po' come la patina brillante delle pubblicità di smartphone, che nascondono l'obsolescenza programmata. In tutto questo, il cantato di Bad Stream, al secolo Martin Steer, è l'unica testimonianza umana in un mondo iper tecnologico, e spesso finisce sommersa dalla perfezione dei suoni cristallini, ultimo residuo di sentimento come si sente anche in "Sex cries". Qui gli input rumorosi sembrano ricordare il funzionamento dei software, i refrain sono accompagnati da una chitarra con un suono figlio di Brian Eno. L'elettricità chitarristica aumenta in "Drown on Mars", in cui anche il basso è distorto, sostenendo sonorità fantascientifiche. "Quiet (1986)", con suoni più soft ma ugualmente stranianti, ci porta in una dimensione piccola e delicata (1986 è l'anno di nascita di Steer). Un basso pulsante di scuola Kraftwerk ci apre a "Megafauna", dove i rumori di motori e di una tastiera che imita i clacson fa intuire che la fauna di cui si parla non è quella della savana. Qui il testo contiene una delle frasi più significative: "I hate my feelings". Il distaccamento verso le proprie emozioni è l'emblema dell'ambiente rappresentato da Bad Stream, sopra questo rullante industrial. La perdita di sé porta inevitabilmente a una condizione d'angoscia, e così si intitola il pezzo successivo "#Angst", dall'andamento ossessivo. "Polyzero" ricupera la condizione finto-speranzosa (ma molto avventurosa) di "Already dark", ma la voce qui finalmente raggiunge per un istante qualche nota più acuta e un po' più di energia. "Black weed", con un battito regolare, ci accompagna gradualmente in un clima via via più accattivante. "Nervous love" è un crescendo mozzafiato, che raggiunge la sua espressione massima se aiutato dal videoclip, che se per i primi cinque minuti pare un acquerello psichedelico in movimento ma astratto, ad un certo punto sembra far comparire un volto poco rassicurante. E proprio in quel momento esplode la distorsione della chitarra (sconsigliato ai cardiopatici). Conclude l'album "Transmition II", che non riprende di pari passo l'atmosfera introduttiva, bensì ci aggiunge un arpeggiatore rapido ma costante. E' alienante, e la chiusura viene condita da una citazione che confronta esseri umani e tecnologia assassina. Non è un lavoro semplice, questo, mira alla profondità e alla riflessione. Sembra che il dato musicale evocativo prevalga sul pensiero dell'autore, però la voce di quest'ultimo, tenuta bassa e quasi nascosta, è una scelta che fa parte del messaggio stesso della prevaricazione della macchina sull'uomo. (Gilberto Ongaro)