TOM WAITS  "Franks wild years"
   (1987 )

Questo disco mi è stato restituito al volo, cioè tirato dietro accompagnato da un “Ma che cazzo ascolti?”, da un’amica a cui l’avevo prestato insieme a “Rain Dogs” e “Swordfishtrombones”, che hanno avuto la stessa sorte ingloriosa. Non sto parlando di una sbarbina demente che starnazza per un Cremonini qualsiasi, né di una tardona sanremofaga che si nutre dei penosi acuti da tenore fallito di Al Bano, bensì di una persona musicalmente capace d’intendere e volere. E allora dov’è il busillis? Credo sia nell’atteggiamento edonistico con cui la mia amica ha affrontato Tom Waits, confusa anche da certi accostamenti, dovuti alla comune raucedine, tra l’Orco di Pomona (California) e l’Avvocato di Asti (Piemonte), ossia Paolo Conte. A forza di sentir dire che Paolo Conte è il Tom Waits italiano e viceversa, deve aver pensato di potersi mettere tranquilla in poltrona a godersi un jazz elegante, un po’ esotico ma rispettoso della tradizione come quello dell’Avvocato, e invece si è trovata di fronte un musicista geniale ma pazzo, che il jazz (e il blues, e tutto quello che trova) lo strapazza, lo maciulla, facendone spettrali brandelli musicali con cui poi ricostruisce i suoi incubi tossico-etilici. Storie di vita melmosa, quella degli sfigati d’America, un po’ gli stessi di Bruce Springsteen, solo che qui non sono visti come eroi popolari, ma ritratti impietosamente in tutta la loro nudità, nelle loro miserie e nei vizi più immondi. Tom Waits non fa nulla per piacere: bisogna sudarselo, soffrire con lui, e questo ostico “Franks Wild Years”, tratto dall’omonima commedia musicale, non fa certo eccezione. Prendiamo la rumba di “Straight To The Top”: ti scuote come un passaggio di cavalli su un ponte di legno. Non puoi stare lì a contemplare: il ponte trema, ti viene il capogiro e hai voglia di scappare. Poi magari la ritrovi in versione “Vegas”, a fare il paio con “I’ll Take New York” come caricatura di Frank Sinatra e dei crooners, ma ormai il veleno dell’inquietudine è entrato in circolo. Oppure “Hang On St.Christopher”: frustate di percussioni tirate qua e là, un corno che spernacchia, chitarra distorta e basso che rotola per conto suo, e su tutto, direttamente dal culo dell’inferno, la voce di Tom Waits. Non c’è nulla per gli esteti, ma il ritmo ti inchioda, e poi basta qualche ascolto per scoprire che tutto quel caos è solo apparente. Così come “Temptation”: in quel carnevale di congas, maracas e altre diavolerie chi si accorge che il falsetto dell’Orco è goffo, così come i suoi lamenti da muezzin con il mal di stomaco? La tetra malinconia degli organetti, un classico di Waits, si esalta nella crepuscolare “Blow Wind Blow”, dove i campanelli di un Glockenspiel disegnano un mesto carillon di note che rimanda addirittura a certi adagi delle sinfonie di Mahler, anche se il motivo è chiaramente molto più elementare. Organetto superstar anche in “Innocent When You Dream”, così cantabile e così strascicata da sembrare la colonna sonora ideale di una solenne ciucca, ma di quelle tristi. “Yesterday Is Here” copre quasi del tutto con colori scuri un motivo apparentemente folk, che ricorda vagamente “The House Of Rising Sun”. Verso metà disco si entra in una specie di tunnel degli orrori in cui i brandelli di valzerini, marcette, blues stravolti e altro appaiono in tutta la loro miseria, si sfiora più volte la cacofonia, eppure si rimane in una sorta di dormiveglia vigile, da cui ci strappano i rabbiosi latrati di “Way Down In The Hole”. Solo verso la fine Tom Waits comincia a parlare un linguaggio accessibile anche agli edonisti, e tira fuori due capolavori di malinconia come “Cold Cold Ground”, con la sua struggente fisarmonica da vecchia canzone francese, e “Train Song”, in cui la disperazione rauca della voce cerca (e non trova) conforto nel dialogo con il pianoforte e in qualche dolce assolo della solita fisarmonica. Ma a questo punto gli esteti come la mia amica sono già scappati, spaventati dai fantasmi che hanno sentito prima. Peccato per loro.(Luca "Grasshopper" Lapini)