PARK JIHA  "Communion"
   (2018 )

La musiche etniche e il jazz moderno sono meno lontani di quel che sembra. Ciò che li accomuna è la tendenza all'improvvisazione, seppur con approcci diversi; e quando la tradizione secolare incrocia l'innovazione continua, il risultato è di difficile incasellamento. L'artista coreana Park Jiha ha fatto incontrare gli strumenti musicali delle sue origini (piri, seanghwang, yanggeum) con il jazz occidentale e l'intenzione strutturale del post-rock. Grazie alla performance del vibrafonista John Bell, del clarinettista e sassofonista Kim Oki e del percussionista Kang Tekhyun, prende vita l'album "Communion", appena uscito per la Glitterbeat Records. Focus sugli strumenti di Park: il piri è un fiato, dal suono simile all'oboe, ma dal tipico suono che ricorda la voce umana nelle sue fasi più espressive. Il seanghwang è un organo a bocca (fa impressione vederlo...): un insieme di lunghe canne che terminano in un bocchino dove soffiare. Lo yanggeum invece è come un salterio, o un cembalo, solo che le corde sono battute con dei martelletti. I sette brani che compongono l'album sono diversi ma trasportano la stessa magia ipnotica. "Throughout the night" è un dialogo tra piri e clarinetto basso: il clarinetto fa vibrare soprattutto le sue note più gravi e funge da accompagnatore, mentre il piri vola liberamente. In "Accumulation of time" un agitato yanggeum accelera gradualmente un'improvvisazione crescente d'intensità, che raggiunge una sua catarsi, che una volta sfumata lascia ripartire note lente e distanziate l'una dall'altra. "Communion" è introdotta dal trillo del vibrafono, che poi indietreggia a decorare il corpo centrale del brano, costituito da un contrappunto fra piri e clarinetto basso. Gradualmente il piri si sgancia dal contrappunto, per lanciarsi in un'interpretazione improvvisata magistrale, carica di un'espressività emotiva che non lascia indifferenti. "Sounds heard from the moon" stempera il lirismo per proporre una nota di yanggeum ribattuta con insistenza, in crescendo e in decrescendo, avanti e indietro come un'onda (infatti in sottofondo si ode il mare). La nota ribattuta diventa sostegno di una melodia dilatata, che si lascia contemplare. Poi, nonostante le note restino riconoscibili, c'è a sorpresa una virata noise, Jiha percuote lo strumento con foga quasi da metallara. Per chi era rimasto incuriosito, in "The longing of the yawning divide" fa finalmente capolino il seanghwang, suonato in maniera melodica e monofonica. Eh sì, il timbro di questo strumento è brillante e sembra quello di un organo da cappella, solo che si sente che è suonato a fiato. La melodia interpretata in questo brano è malinconica e delicatamente sostenuta dal vibrafono. "All Souls' Day" è basata su due accordi di yanggeum, ma all'inizio su uno solo, creando una suspense, e fa improvvisare il sassofono nella maniera più jazz dell'album. Le percussioni coreane mantengono saldo il legame tra ovest ed est. Nella seconda metà il sassofono viene sovrastato dal piri; è inutile, se questa era una battaglia tra chi risulta suonare più incisivo, il piri sbaraglia l'ottone più noto. I due comunque fanno la pace, suonando all'unisono delle ottave regolari e quasi febbrili. L'ultimo viaggio si chiama "The first time I sat across from you", dove lo yanggeum torna protagonista, affiancato dal sax, e per l'ultima volta creano questo particolare crescendo e decrescendo, che non sfocia in una prevedibile melodia strappalacrime, ma resta tra improvvisazione e reiterazione ritmica che incanta. E' un mondo personalissimo quello di Park Jiha, che suscita un fascino unico. (Gilberto Ongaro)