FLAVIO GIURATO "Le promesse del mondo"
(2017 )
Dice Flavio Giurato che sono le sue stesse canzoni a scegliere da sé in quale guisa rivestirsi, se elettrica o no. A me “Le promesse Del Mondo” ricorda a tratti – in certi formalismi ridondanti - “North Star Deserter”, l’album realizzato dall’immenso Vic Chesnutt con Guy Picciotto ed alcuni membri dei Godspeed You! Black Emperor. Leggasi: un lavoro talvolta agghindato da un substrato di suono forse eccessivo per ricoprirne le trame stralunate.
Ma è una questione di arrangiamenti, al massimo di produzione. Sono dettagli, tolti i quali rimane la statuaria levatura di un artista il cui percorso intermittente - ma fiero e coerente - è paragonabile forse a quello del solo Scott Walker.
Flavio Giurato era e rimane un cantastorie d’elite, voce da quarant’anni disallineata che scodella ne “Le Promesse Del Mondo” uno sghembo e trasversale concept sull’idea stessa di migrazione, piaga dei giorni traballanti che ci toccano in sorte, un’altra faccia della medaglia che fu “Die” di Iosonouncane non più tardi di un paio d’anni fa.
In sessantaquattro minuti soffocanti ed opprimenti, in un’orda di parole stipate in brani lunghi, agonizzanti, arrancanti, duri e incombenti, va in onda un bestiario sovraffollato di morti viventi e sporcizia declinato nella consueta – sempre più spinta – narrazione sovraesposta ed espressionista. Al crocevia di maniacale, didascalico, visionario, delirante, riecheggiano di continuo le reiterazioni verbali insistite, mentre lingue si mischiano in una babele di idiomi e suoni che trova sublimazione nei nove minuti e passa dell’opener “Soundcheck”, compendio cubista di travolgente irruenza ed immaginifica nitidezza.
Scheletrico, eppure mai lineare; spettrale, con quel timbro baritonale che ne fa all’improvviso uno strillone, un folle, un intellettuale. Dettagli infinitesimali (“Agua Mineral”) sviscerati e snocciolati come piselli da un baccello, cronaca cruda (“Digos”) smorzata da un’ode sbilenca a Papa Francesco (gli otto minuti quasi troppo semplici de “In Mezzo Al Cammino”), borborigmi anglofoni (“Snuff Song”) e poi rimembranze, ipotesi, agnizioni, rumori, suggestioni, bisbigli, mormorii impastati in un clima di montante tensione inscindibile in parti. E’ un sabba percussivo “Ipocrisia” che scava nello stomaco così come “I Lupi”, mentre una chitarra che sembra un’orchestra disegna trame inafferrabili e puntella il dramma storicizzato di “Ponte Salario”, patriottismo e morte a braccetto in una straziante rievocazione da libro Cuore.
Non più un cantante. Uno sciamano, piuttosto. Padre e padrone di ciò che canta e del come lo canta.
Senza filtri, senza fronzoli. Disinteressato ed ineguagliabile. Isolato, monumentale. (Manuel Maverna)