CADORI  "Non puoi prendertela con la notte"
   (2017 )

Arduo calibrare parole adatte a decantare ed esaltare come merita la nuova fatica di Giacomo Giunchedi, musicista abruzzese già mente dietro il progetto Torakiki ed oggi, sotto il moniker di Cadori, finalmente al debutto su un’etichetta (la milanese Labellascheggia) dopo una serie di autoproduzioni iniziate nel 2014. Autore che andrebbe schierato nello sparuto novero dei traghettatori del cantautorato tradizionale verso nuove e sincretiche forme espressive, Giunchedi abita una nicchia sempre meno angusta in cui è andato affinandosi negli ultimi anni un virtuoso connubio tra elettronica docile e sensibilità – anche letteraria – contemporanea, in un percorso che passa, tra evidenti mutazioni genetiche, per Iosonouncane e Cosmo, I Cani e unòrsominòre, solo per citarne alcuni. Specie negli episodi più introversi, “Non puoi prendertela con la notte” – mixato e masterizzato addirittura da Justin Bennett - richiama i Verdena di “Endkadenz vol.2”, quelli in fuga da loro stessi per la porta di servizio, ossia un misto di accessibilità e melodie retrò unite a piccole deviazioni dalla strada maestra: accade nel soul sui generis di “KFM” o nella bossanova fasulla di “Canzone Dei Trent’Anni”, ma soprattutto nel bozzetto amaro e dilatato di “Siena”, che arranca rincorrendosi su una suadente aria monocorde fra Blonde Redhead, Marlene Kuntz e chissà cos’altro. Le canzoni – di sontuosa profondità e disarmante arrendevolezza – si rintanano sotto testi sussurrati ed un velo di elettronica essenziale mai invadente, lasciandosi intravedere come un panorama dietro i vetri opachi, la voce ridotta ad un soffio, strumento timido incasellato in un puzzle dai bordi asimmetrici. “Quello che resta” ha echi degli Afterhours più scarni e stralunati, “Santa Mattina” pare un arzigogolo di Meg, “Guai” è una ballata veloce da Lucio Battisti con l’andatura dinoccolata dei War On Drugs o quella più tossica dei DIIV, tra i pochi episodi più scopertamente facili insieme al rallentamento indolente di “Cauntri #3” – con la voce di Giulia Olivari - e a null’altro. Sorniona “Astrid”, punteggiata da vocalizzi ed insolite cesure, col testo che inizia a metà del brano, quando non lo aspettavi più; infida “Naoko”, con arpeggio di chitarra che va alla deriva senza meta precisa; stordente l’impatto di “Benzina”, ponte sospeso fra gli impazziti ritmi sintetici di Incani e la visionarietà allucinata di Brondi. Questo non è pop né EDM, è musica stregata che uccide la forma sovvertendo la dorata prigione strofa-ritornello. Eclettico e sfuggente, impossibile da etichettare senza correre il rischio di sottovalutarne alcuni aspetti, l’album languisce inafferrabile per cinquanta minuti trascorsi dietro un paravento traslucido, quello che scherma i trascendenti 461 secondi della conclusiva “Audrey Hepburn”, lasciata lievitare in dolci mormorii, cullata in nebbie purpuree, infine affogata in una sublime coda strumentale in interminabile crescendo. Disco enigmatico rigonfio di un sottile fascino morboso, opera che si colloca in una bolla impossibile sia da dissolvere che da penetrare, “Non puoi prendertela con la notte” è un inebriante impasto di elementi che non appartengono ad alcuna categoria nota. Forse è qualcosa di davvero nuovo, forse soltanto un ulteriore passo verso il prossimo upgrade di quello che chiamavamo cantautorato. (Manuel Maverna)