SILVER DUST  "The age of decadence"
   (2017 )

I Silver Dust sono una ben strana creatura. Quartetto svizzero attivo dal 2013, anno di pubblicazione del debutto “Lost In Time”, girano da allora ininterrottamente per l’Europa portando a spasso ovunque, Montreux Jazz Festival incluso, il loro show fatto di trucchi scenici e mascherate ad effetto, dividendo i palchi con nomi prestigiosi, dagli Offspring ai Deftones, dai Lordi ai Nightwish. Interpreti di un metalcore edulcorato che spazia dal prog al sinfonico, impregnato di melodie che ne conformano le trame e ne accrescono la tensione, i Silver Dust realizzano su etichetta Fastball Music/Escudero Records “The age of decadence”, vibrante conferma di un’arte dai confini mobili. Esemplare l’opener “Welcome”, che in cinque minuti scarsi apparecchia per il banchetto: apertura speed, accenno di growl repentinamente fugato da un canto stentoreo in francese, stop-and-go nevrotici à la System Of A Down, ritornello flautato da Indochine con tastieroni imponenti, intermezzo industrial recitato, epilogo ingoiato dall’ultimo rigurgito belluino su un tappeto di rumori assortiti. Nelle tre tracce che seguono – “Heaven knows”, quasi i Pearl Jam (sic!), “My Heart Is My Saviour”, cupamente elettronica in zona Depeche Mode, e “Shame On You”, sassata à la Rammstein – la band pare caracollare sul filo di un manierismo di squisita fattura: ma dalla successiva “Princesse De Ma Chair” si guadagna l’ambìto quarto di nobiltà, deviando impetuosa in direzioni impronosticabili. Il pezzo è in francese, parte come Des Millions De Forets di Prohom e si impenna minaccioso sull’ennesima deflagrazione corale ingigantita dal lavoro delle tastiere, statuario preludio alla stralunata nenia di “Morte d’Aimer”, aria pianistica che ricama un valzer decadente da teatro mittleuropeo, quasi una cantilena brechtiana o una litania in falsetto à la Marc Almond. Come vetro infranto, l’incanto si spezza due minuti più tardi gonfiandosi in un largo prog, indi in una titanica, epica, drammatica coda pseudo-sinfonica. Prima del commiato acustico di una “Forgive me” – reprise del brano incluso nel disco d’esordio – così bella e così avulsa dal quadro finale, la band infila un trittico devastante: la marziale title-track, cadenza martellante e violentissima stemperata dal salmodiare di una voce femminile che si sostituisce al ritornello; il battito ossessivo di “Now We Request”, bordata dal pathos grandguignolesco che si infila in un tetro gorgo sintetico degno del Reverendo Manson; infine “The Judgement Day”, ritmo ostinatamente spezzato che ammicca alla dance, voce filtrata, echi, suggestioni mediorientali, disarmonie a cascata, chorus ipnotico, scariche di riff, assolo dissonante, chiusa psichedelica che lambisce sonorità space. E poi, appunto, quella ballata che non c’entra niente, ma che sta bene lì dov’è: come un gioiello pacchiano al collo di una donna bellissima. E’ il suggello ad un album opulento e sovraccarico che mischia, confonde, rivisita, riparte da chissà quale nuova origine, in un diorama nel quale convivono, stipati all’inverosimile, personaggi, situazioni, influenze, idee, variazioni, tentativi, aperture. Mille punti di partenza, altrettanti punti di osservazione. In un solo disco. (Manuel Maverna)