FROM THE DUST RETURNED  "Homecoming"
   (2017 )

Tante prog band spesso si caratterizzano per determinati difetti: eccessive parti solistiche, a volte prive di ispirazione, complesse strutture un po' pretenziose senza una specifica direzione o giustificazione, meccanicità da automa, o al contrario pomposità superflua. Invece i From the Dust Returned sono un felice esempio di come tutti questi elementi possano coesistere in maniera equilibrata e piacevole, come ingredienti di una ricca torta nella quale non ci sia troppo lievito, troppi canditi o troppe poche uova. Le elaborate parti strumentali non intaccano l'interessante storytelling, tutto è funzionale o alla narrazione, o alla bellezza della musica. "Homecoming" si apre con un tappeto etereo di tastiere in "Harlequeen", raggiunto da una chitarra acustica che esegue accordi dal sapore di "Welcome to the machine" dei Pink Floyd. Successivamente entrano in scena le voci protagoniste di questo lavoro dai forti contrasti: una voce è pulita, e seppur leggera tende al vibrato lirico; l'altra è un growl. Ascoltare una voce in growl sopra un arrangiamento acustico è inusuale, ci sono pochi esempi se non "Father" del progetto Ayreon di Lucassen. Ci sono brevi stacchi a sorpresa fiabeschi, quasi da Jethro Tull, per poi far comparire il marchio imprescindibile sia dell'hard rock anni '70 che del progressive: l'hammond, in primo piano, alternato da un assolo di synth. I vari elementi si susseguono in orizzontale, come vari capitoli di un libro. Il secondo pezzo, che è la titletrack "Homecoming", è un intermezzo strumentale in 6/4 che dura poco più di un minuto: ci presenta degli inquietanti campanellini e dei suoni fumosi, fino ad arrivare ad un tema preciso che si trasforma in un riff di chitarra distorta. Nel terzo capitolo, "Echoes of faces", ritornano le due voci opposte in contrasto; la voce pulita raggiunge degli acuti cantati un po' à la Bruce Dickinson. Il tema melodico principale per chitarra, all'unisono con hammond, viene ad un certo punto parodiato da un sitar, e la canzone ci trasporta nel tempo di un ponte in un clima orientaleggiante ma ugualmente aggressivo. Per pochi secondi compare una fisarmonica, che consente al brano di proporre una seconda zona diversa dalla precedente. L'aggressività è poi superata dal ritorno del sitar, stavolta accompagnato da percussioni etniche. E siamo solo a metà! Il resto delle sorprese le lascio scoprire agli ascoltatori, tra interessanti escursioni armoniche, suoni di organo a canne, un rock che diventa fusion ("Glare"), un canto quasi da eroe disneyano contraddetto da minacce e dissonanze ("Sleepless"), e tanti altri aspetti interessanti di quest'avventura musicale che sarà apprezzata parecchio dai progger! (Gilberto Ongaro)