RAINBOW BRIDGE "Dirty sunday"
(2017 )
Siete affamati di buona musica? Avete voglia di saziare questa brama con qualcosa che delizi le vostre orecchie? Avete dei gusti raffinati e palati fini da non accontentarvi della solita minestra riscaldata? Siete stufi di ascoltare la stessa solfa che ormai non vi emoziona più? Ebbene, “Dirty Sunday” dei Rainbow Bridge è quello che ci vuole per farvi riscoprire il valore delle cose fatte per bene e con genuinità. Quali sono gli ingredienti? Presto detto: prendete una chitarra suonata da Giuseppe Jimi Rai Piazzolla, un basso suonato da Fabio Chiarazzo e una batteria suonata da Paolo Ormas; unite questi tre virtuosi strumentisti e aggiungete su una base rock abbondanti dosi di heavy blues, delle gocce di psichedelia e una spruzzata di progressive, mescolate il tutto fino ad ottenere un disco con 5 tracce esplosive ed il gioco è fatto. “Dirty Sunday” è registrato dal vivo in studio, frutto di anni di concerti e di una consolidata intesa di gruppo. Un lavoro strumentale perché non servono parole quando sono il basso, la batteria e la chitarra a parlare! In quasi quaranta minuti si snocciolano note e passaggi su tamburi e piatti, con momenti di intensità che si alternano a momenti di stasi, in un’alchimia sonora che lascia senza fiato l’ascoltatore. Un lavoro autentico e dal sapore antico, che fa tornare alla mente i fasti delle grandi rock band anni ’70, con le lunghe suite, improvvisazioni e sperimentazioni, entrate di diritto nei manuali del rock. Questo è in sintesi il lavoro dei Rainbow Bridge! Un disco che dovrebbe trovarsi nella propria collezione personale, e che dovreste ascoltare almeno una volta al giorno per non dimenticare come si suona la vera musica! Si comincia con i quasi otto minuti di “Dusty”, in sordina con una chitarra che sembra suonare annoiata e senza voglia, ma basta un minuto per ricredersi quando entrano in gioco basso e batteria. Il suono si fa più duro e invita a chiudere gli occhi e fare il vuoto attorno a sé per iniettarsi in vena una dose di energia. La chitarra, con un sound sporco, grezzo ma travolgente, è alla perfezione guidata da un basso e una batteria martellanti, per un pezzo che non rimane statico nella sua sezione ritmica ma mostra una sua azzeccata variabilità. La title track ha convincenti sonorità zeppeliniane che sfociano in un delirio quasi metal negli oltre sei minuti e mezzo che la caratterizzano, mentre sfiora addirittura i dieci minuti l’ammaliante “Maharishi Suite”. Traccia ipnotica, scorrevole nella sua variabilità ritmica, che strizza l’occhio ai Cream ed alle improvvisazioni live della PFM fine anni ’70. Il trio sfodera un sound convincente, ricco, denso di pathos ed energico anche nella breve, rispetto agli altri quattro pezzi, “Hot Wheels” (breve si fa per dire: poco meno di cinque minuti): una galoppata rock tra virtuosismi di una chitarra incandescente e la coppia basso batteria, che dettano ritmi frenetici fino ai primi due minuti, per poi riprendere con energia nella parte finale. In chiusura “Rainbow Bridge” che, con i suoi quasi sette minuti, è la ciliegina sulla torta di un capolavoro del rock e delle sue influenze. C’è altro da aggiungere? Non credo! Di fronte a certi dischi occorre solo l’ascolto in religioso silenzio! (Angelo Torre)