DEPECHE MODE  "Spirit"
   (2017 )

Onestamente, per commentare un disco dei Depeche Mode bisognerebbe aspettare almeno due anni. Perché i nuovi DM, quelli nati dalle ceneri dei tentati suicidi, degli abusi alcolici e dell’abbandono di Alan Wilder (che pareva il quarto incomodo ma che era in realtà il motore del sound nel decennio dorato), continuano a fare dischi che al primo ascolto ti fanno storcere il naso, al terzo ti fanno credere di aver trovato la quadra e la chiave di lettura, al quinto ti annoiano e ti fanno tornare la voglia di riascoltare “Violator” o “Music for the masses”. Il motivo? I DM degli ultimi 20 anni continuano a lavorare su una specie di rockblues elettronico dove ci si aspetta sempre, sempre, una qualche esplosione di ritmo, di voce, di tastiere, così come quando proponevano il loro synthpop da stadio a fine ’80. Invece, questo non avviene mai, lasciando sempre, sempre, l’urlo in gola. “Spirit” tutto sommato non va in direzioni diverse rispetto ai precedenti, se non per un diverso tono, molto più politico, dei testi. Roba, i testi, che non sono mai stati, a dire il vero, il principale motivo del loro successo. Qui si parte con buone cose, a partire da “Going backwards”, e altre che superano il ripetitivo singolo iniziale “Where’s the revolution”. Poi, quello che un tempo sarebbe stato definito il “lato b”, tende a rallentare. Come se i Depeche Mode, consci che i loro brani sono sempre remixati da migliaia di dj, avessero voluto tenere le versioni originali quasi in modalità demo, per non influenzare troppo le successive iniezioni di vitamina. E allora, tornando all’esordio di questa recensione, perché aspettare due anni? Perché solo tra un po’ capiremo se questo album ha dato brani che potranno essere inseriti in un “best of” proveniente da Basildon, UK. Perché solo con il tempo ci siamo accorti che dagli album precedenti, davvero, non è che sia uscita tanta roba da tenere in memoria: “Heaven”, da “Delta Machine”, ce la ricordiamo? Poco? Ecco spiegato perché oggi viviamo tra la perplessità e l’emozione mischiata alle suggestioni. Domani, sapremo qualcosa di più. Comunque sia, come sempre, meglio averli che perderli, anche in questa ormai ventennale versione di dischi quadriennali sempre troppo, troppo frenati. (Enrico Faggiano)