PIPPO POLLINA "Il sole che verrà"
(2017 )
Nemo propheta in patria, scontato ma doveroso quando si discorre di Pippo Pollina, cinquantatreenne musicista palermitano la cui inenarrabile - per certi aspetti assurda - parabola artistica ha attraversato varie vite, vedendolo dapprima enfant prodige con gli Agricantus, quindi transfuga, poi esule, infine figliol prodigo part-time dopo essere assurto sì agli onori del bel mondo, ma sovente soltanto in terre straniere.
Anche stimato attore, nonché venerato come autentica celebrità in Svizzera – ove tuttora risiede – così come in Francia, in Austria ed in Germania, voce di nicchia ai nostri lidi, ove sporadicamente torna per dispensare lampi di quella classe sopraffina che è talora appannaggio degli incompresi, a tre anni di distanza da “L’appartenenza” Pippo pubblica “Il sole che verrà”, ventiduesimo capitolo di una nutrita, ininterrotta, incessante discografia.
Questa è canzone d’autore, cari miei, e fine del discorso: inviterei i denigratori e detrattori della poesia in rima ad astenersi e a proseguire su altre rotte per sentieri vergini, mentre ai laudatores temporis acti suggerisco di rimirare la traslucida bellezza di un disco aulico come le parole barocche che spendo incensandone le trame, sottolineandone il mirabile, consueto lavoro di cesello che sottende, decantandone le armonie ampie e l’ostinata, caparbia riproposizione di un linguaggio rimasto patrimonio di pochi.
Disco antico che mai ambisce a non esserlo né a dissimulare la propria elegante e profonda vetustà, densa di colori, immagini, concetti, “Il sole che verrà” si muove al crocevia fra istanze popolari ed ambizione colta, da Max Manfredi a Danio Manfredini, da Emiliano Mazzoni a Ivano Fossati (“Andarsene d’estate”, inarrivabile vertice del disco), disegnando traiettorie intrise di stupore ed intarsiate da introspettiva meraviglia.
Alla larga, modernisti: questo è un album verboso e triste come un’elegia, un diluvio di parole sgranate su uno stuolo di arie in minore, un disco capace di aprire - sfoderando la nonchalance di chi più nulla deve dimostrare - con una romanza che sa di Branduardi lasciata alla mezzosoprano Odilia Vandercruysse, di proseguire con la sfuggente ballata blandamente campestre di “A mani basse” e di infilarsi nel folk up-tempo fra Cowboys Fringants e Paolo Conte de “Il nibbio”.
Lavoro ricchissimo, quasi opulento nel suo insistito affastellare personaggi e situazioni, nel raccontare storie imperfette ed inconcluse, “Il sole che verrà” rinviene nella malìa di un cantare discreto la sua statuaria bellezza demodé: traccia accenti mariachi in “Cento chimere”, scherza su un’aria à la De Andrè nel flamenco sbagliato di “Divertimento latino”, indugia nella bachata morbida di “Rugiada sui tetti”, flirta con il Guccini che fu nella title-track, prima di chiudere sulla soffice melodia riflessiva di “Ancora una”, ad un passo dalla cerebralità per le masse di Amedeo Minghi.
E’ ciò che ci si aspetta, con il sommo gaudio di saperlo già: musica apolide imbevuta di suggestioni etniche, declinata con tutto il garbo compunto di un autore refrattario alle mode imperanti, una pagina in più in un canzoniere sconfinato fatto di tessiture preziose e di un lirismo raffinato, rifinito con la maestria che solo ai grandi tocca in sorte. (Manuel Maverna)