ALESSANDRO FIORI  "Plancton"
   (2016 )

Scientemente inumata la propria lucida, disincantata follia sotto strati di effettistica ed una coltre di elettronica invasiva, al genio obliquo, sardonico e bislacco di Alessandro Fiori, meravigliosa penna celata nelle segrete dell’italica creatività, resta appena lo spazio per infiltrare in cotanto saturo fragore schegge di una poetica rovesciata, indocile e disossata. Se la veste scarna, benché screziata da innumerevoli vizi di forma, ha spesso giovato alle contorsioni di questo inclassificabile aedo, altrettanto non si può dire del sovraccarico sonoro che ingabbia gli arrangiamenti di “Plancton”, nuovo album a tre anni da “Cascata”, sviando a tratti dal fulgore balordo che ne anima l’abituale anticonformismo. Lavoro che vive dei consueti contrasti fra armonie confidenziali e testi inclini come sempre alla fosca descrizione di un bestiario di varia umanità, “Plancton” incespica di frequente arrovellandosi su un contorto arzigogolo di elettronica zoppicante ed obliqua che renderebbe fiero ed orgoglioso un artista parimenti sopraffino come Jacopo Incani (ad esempio in “Ivo e Maria”, coup de théâtre intrappolato da un andamento spinto e ondivago), voce isolata ed eremitica che nell’ultimo lustro ha indicato una nuova via muovendo dai più reconditi recessi di una musica dolente, sotterranea, sofferta e trasversale. In “Plancton” i toni avant spesso solo accennati nei precedenti lavori lievitano fino ad eccessi talmente calcati da snaturare in parte la vena asciutta e penetrante che caratterizza l’opera omnia di Fiori e che riaffiora prepotente solo in alcuni episodi meglio calibrati e centrati (l’intima e feroce “Mangia!”, quasi un blues storto à la Captain Beefheart, la sprezzante “Madonna con bambino rubato”, l’ubriacante seconda parte di “Piazzale Michelangelo”), saggi inequivocabili di un estro focoso attutito - quasi sminuito - dalla preponderanza concessa alla produzione, come se un corpo attraente restasse solo suggerito sotto i pesanti paludamenti che lo rivestono. C’è molta carne al fuoco, ma questa volta il fuoco – ahimè - è forse troppo. (Manuel Maverna)