FRANCESCO DI BELLA  "Nuova gianturco"
   (2016 )

A titolo squisitamente personale, ciò che da lungo tempo mi affascina e mi rapisce in Francesco Di Bella è la sua innata attitudine a cesellare piccole fragilissime canzoni, fatte di pochi accordi in minore ed affidate ad un filo di voce garbata e confidenziale, anche negli episodi in cui i temi affrontati si fanno più aspri e scomodi; da sempre in bilico tra lingua italiana e dialetto napoletano, i suoi versi trasudano una disillusa tristesse, inquadrata da un occhio lucidamente spalancato sui molti abissi della vita. Di indole malinconica e umbratile, Francesco ha attraversato in punta di piedi vent’anni di musica introversa e sotterranea, partorendo minuscoli capolavori rimasti ad aleggiare a mezzaria, ottenendo con i 24 Grana di inizio millennio importanti riscontri di pubblico ed una certa silente notorietà, optando infine per il varo di un percorso più legato ad una dimensione personale, frugale, di ritrovata e rinnovata profondità. “Nuova Gianturco”, secondo lavoro solista che segue di tre anni il delizioso “Francesco Di Bella & Ballads Cafè”, raccoglie dieci sfaccettate gemme venate di sofferto intimismo, altrettante istantanee di malessere e disagio porte con la consueta aggraziata mestizia in una mezzora vibrante, intensa, a tratti struggente nella sua addolorata dolcezza, disco intriso di molta oscurità squarciata dai lampi di luce che la co-produzione ed i co-arrangiamenti di Daniele Sinigallia sanno regalare. In un viaggio che muove dai dettagli - da Napoli al mondo intero, la parte per il tutto, world-music mascherata -, una periferia diviene l’anticamera di tutti i sobborghi: emblematico il passo deciso della title-track, che apre l’album avviluppata attorno ad una linea melodica limpida, una carezza tagliente che porta con sé un chorus lacerante, pur nella sua compostezza. Storie smozzicate di spostati, narrate con misurato calore, mai con algido distacco, si affacciano nell’universo rovesciato di “Aziz”, teso scorcio sul tema dell’immigrazione affidato a Luca Persico dei 99 Posse, ma anche nella toccante confessione che fa di “Tre nummarielle” un vertice di poesia spicciola recitata dal basso. Una palpitante, brulicante, variegata umanità sgomita per contendersi brandelli di vita, animata da incrollabile dignità e senso pratico: basterebbero l’amarezza di “Progetto”, nobilitata da una calzante interpretazione di Neffa, l’impennata sbilenca di “Blues napoletano”, l’aria falsamente disimpegnata di “Non ho più tempo” (fra Daniele Silvestri e Riccardo Sinigallia) per chiudere il cerchio, ma l’album trova ideale suggello e nobile sublimazione nella riproposizione di “Brigante se more” di Musicanova con Claudio Domestico (Gnut) e Dario Sansone (voce dei Foja), e soprattutto nella chiusa raccolta e dimessa di una “Guardate fore” che stende lieve il suo gentile commiato su un lavoro suadente, ammaliante, coinvolgente. (Manuel Maverna)