COLLETTIVO GINSBERG  "Tropico"
   (2016 )

Uno solo e nessun significato/e tutti i significati/e il significato: è forse questo il senso ultimo del secondo album dei Collettivo Ginsberg, quintetto romagnolo la cui dotta proposta è ardua da classificare, catalogare, sviscerare, comprendere. “Tropico” (in uscita il prossimo 30 settembre per L'Amor Mio Non Muore/Irma) è album sfaccettato che si presta a molteplici letture, fucina di idee frullate, rimasticate e rimodellate in fogge inusuali, lavoro renitente all’iscrizione in un qualsiasi filone, opera fascinosa, mai magniloquente né autoreferenziale, affatto semplice da penetrare ma curiosamente fruibile anche restando un passo al di qua dell’hellzapoppin stilistico imbastito da Cristian Fanti e soci. Fra rimandi, citazioni nascoste, riletture e adattamenti (interessante il lavoro compiuto in tal senso sulla conclusiva “Danza macabra”), la band inscena una pièce che pesca da un modernariato musicale venato sì di blasonate ascendenze, ma aperto a contaminazioni contemporanee disseminate come indizi in un rompicapo ammaliante. Disco che oscilla spavaldo ed impavido fra schegge sparse di sonorità vintage e suggestioni letterarie, “Tropico” accosta Gino Paoli e Steely Dan nello suadente shuffle notturno di “Visioni a colazione”, ondivaga armonia che sembra giungere da un Paolo Benvegnù degli anni ’60, ricama tropicalismi assortiti nel vertice assoluto di “Primavera mambo”, ricombina vestigia di De Andrè nell’intimismo colto e confidenziale de “La strada dei mulini a vento” e “Portami con te”, pennella atmosfere distopiche à la Calibro 35 in un patchwork impazzito che sottrae riferimenti mentre ne dispensa copiosamente, enciclopedico compendio di glitch-suonata. Tra echi di jazz addomesticato (una perla il solo di chitarra in “Lingua di luna”), staffilate pre-garage (l’opener “Con due monete”) ed un impiego del dialetto elevato a suono a sé stante prima ancora che a recupero etnico (“Metti che” e “Nella notte del mondo”, su testi rispettivamente di Raffaello Bandini e Aldo Spallacci), la band intreccia una matassa di creatività sghemba che funge da substrato ad un album mai lineare, intriso di una sottile intelligenza e sospinto da trame tanto intriganti quanto imprevedibili. (Manuel Maverna)