CIRCOLO LEHMANN  "Dove nascono le balene"
   (2016 )

L’esordio del quartetto Circolo Lehmann è un convincente e frizzante mix di folk, avant-jazz, psych-rock e prog che mantiene per tutta la sua durata livelli altissimi, senza che vengano mai meno sperimentazioni musicali emozionanti ed esplorazioni poetiche notevoli. ''Dove Nascono le Balene'' allude ad un luogo misterioso, quasi mistico, “che non sveli ma riesci solo a fotografare, a toccare per alcuni istanti”, come ha notato Ghego Zola, voce e chitarra della band. La componente del sogno, dell’etereo, è presente già nella scelta del titolo. Il linguaggio lirico mescola sapientemente fonti simboliste, ermetiche e persino vociane. L’apertura dell’album è delegata a tre momenti molto diversi tra loro, che si snodano attraverso atmosfere profondamente toccanti e che dimostrano quanto la band sia versatile e matura: ''Marlene'' è una pioggia di note jazz che si trasforma in una tempesta di contorsioni chitarristiche nel finale, ''La Festa'' presenta un cantato new-wave che si staglia sopra un pulsare anni ’80 che induce al ballo, ''Niente di Nuovo'' ha sfumature mediterranee mescolate a un prog appassionato con cadenze funky. Niente male come biglietto da visita. Il disco – con grazia e sapienza – procede attraverso questi ritmi e influenze, impreziosito dai bellissimi testi dello scrittore Marco Magnone – il Quinto Lehmann, potremmo chiamarlo! – che porta sulla scena vere e proprie poesie che rendono omaggio a Montale e a Baudelaire, a Bianconi e a De Gregori, a dimostrare nuovamente quanto siano varie le storie che il gruppo vuole raccontare. ''La Casa al Mare'' ha tanto dei Baustelle sia nell’arrangiamento che nella voce: impreziosita da versi meravigliosi, è il diamante dell’intero album, se non altro per la sua incisività melodica estremamente catchy e per nulla banale. ''La Nostra Guerra'' e ''Nero a Capo'' sono i due momenti più prog, più King Crimson, dove la voce si fonde in modo volutamente disarmonico a un tappeto di chitarre sontuose. Anche il folk ha il suo ruolo, e non è certamente quello di comparsa. ''Dove Nascono le Balene'', come anche le successive ''Danza'' e ''Maree'', hanno sonorità vicine al disco ''Un Paese Ci Vuole'' di DiMartino dello scorso anno; sono molto legate alle tradizioni di un’Italia che cerca di resistere alle sue peculiarità regionali e di difendersi dalla globalizzazione e dal qualunquismo imperanti. ''Ulisse'' è un viaggio psichedelico negli anfratti della propria mente, un’esplorazione di sé stessi e dell’universo che lascia a bocca aperta: è sicuramente l’episodio più interessante del disco, dove la band entra con convinzione nella complessità affascinante della world music, e gli ultimi arpeggi di chitarra sono un modo di conciliarsi con l’intero Sistema Solare, una accettazione della natura fallace e limitata dell’umanità. ''Cosa Ci Siamo Persi'' è la chiusura del cerchio – sarebbe meglio dire del circolo – marchiata da una serena accettazione delle nostalgie, delle malinconie e delle solitudini dell’uomo, che nella propria vita va incontro a delusioni, dolori, speranze disattese, ma non smette di ammirare le bellezze del mondo che lo circonda. ''Dove Nascono le Balene'' è il disco folk-rock italiano dell’anno: lo è per la sua schiettezza e semplicità nella costruzione delle melodie, per il fascino dei testi, per il calore della voce, per la dolcezza delle chitarre e degli strumenti a fiato. Rappresenta un’altra buonissima prova all’interno di un genere che – tolto il suo lato mainstream e francamente pieno di cliché di Silvestri, Fabi e compagnia – produce sempre ottimi album da parte di gruppi che dimostrano una maturità – negli arrangiamenti, nella produzione, nella costruzione dei brani – onestamente rara in Italia di questi tempi. (Samuele Conficoni)