KELEVRA "Cronache per poveri amanti"
(2016 )
La ricordo bene, Firenze. E Serena, ricordo bene anche lei. Fu una bella storia, all’inizio degli anni ’90. Lei di Firenze, io di Milano, qualche volta prendevo il treno e andavo a trovarla. Abitava dalle parti di piazza Giorgini, e per discutere in appartata solitudine delle nostre questioni di cuore un giorno mi condusse ai giardini del museo Stibbert, a pochi minuti da casa sua. C’è una canzone nel secondo album dei fiorentini Kelevra, quartetto attivo dal 2012 e giunto alla seconda prova su etichetta Vrec, che si intitola proprio “Stibbert”, un brano carezzevole e malinconico che snocciola al rallentatore desolate rimembranze di gioventù, intriso di quello spleen irresistibile à la Belle and Sebastian che coccola e rattrista mentre oscilli sul filo del tempo che fu. Ma è tutto il disco che rimanda ad un modo di fare musica oggi forse – ahimè –desueto. Asciutto, basilare, pulito. Non demodé, sia chiaro. Ben vengano dunque band come i Kelevra, cinque ragazzi capaci di iniettare in tracce così istintivamente catchy quella linfa che il pop nostrano troppo spesso smarrisce per assecondare bislacche suggestioni cantautorali o per divagare nei meandri perigliosi dell’indie-for-the-masses. In un panorama caratterizzato dallo smarrimento della via di mezzo, “Cronache per poveri amanti” è un disco profondamente pop (“pop amaro”, lo autodefiniscono), semplice, vagamente mesto, antico nella ricerca di buone intenzioni, romantico nella sua levigata eleganza d’antan, ammirevole nel perseguire un dolce equilibrio fra l’essenzialità del costrutto e la volontà di proporre un pugno di buone, oneste, godibili canzoni che non ambiscano ad essere straordinarie né seminali, brani che si lasciano ascoltare senza strafare né replicare modelli. Sfilano sulla ribalta dieci gemme minute che affiancano al nitore dei suoni parole facili e dirette, storie appena accennate che indovinano incastri a iosa senza smarrire ispirazione. Disco privo di arzigogoli edificato su una morbida accessibilità, figlio di arie altrettanto immediate e di arrangiamenti mai troppo elaborati o pretenziosi, “Cronache per poveri amanti” è una raccolta di ritornelli magistrali da cantare e ripetere, di slogan in rima, cori, impasti, intrecci, compendio di vivace disimpegno venato da quell’alone di tristesse giovanilistica di cui già si è detto. Dalla title-track, che assembla Niccolò Contessa ed una verve degna dei primi-e-ultimi Lùnapop, ai divertissement leggeri di “Agostonauta” e “Sogno estivo” (condotta ad un passo baggy, col verso memorabile “il tuo cuore ora riposa/in una culla di benzodiazepina”), dagli accenni 80’s di “Non hai gravità” (cori sovrapposti, synth da Rockets e linea di basso ammaliante a fungere da guida) ad una “Acrobata” che ricorda i Velvet, passando per il chorus-killer di “Fino a qua tutto bene”, per la bella apertura dilatata in minore di “Faruk” e per la chiusura dimessa di “Si vide la luna morire 03-03-2014”, ballata pigra e spoglia à la Zen Circus che regala un definitivo, indolente ritornello ubriaco, l’album è un incessante susseguirsi di idee e armonie sorrette da una schiettezza mai forzata, né melodrammatica o autoindulgente. Inutile cercare in questi trentaquattro minuti tracce di affettata sperimentazione, cervellotica cerebralità, preziosismi letterari o pulsioni avanguardistiche: sono easy pieces, nulla di più, ma chi oggigiorno saprebbe fare di meglio scagli la prima pietra. Merce rara, godiamocela tutta. (Manuel Maverna)