NIGGARADIO  "FolkBluesTechno’n’Roll… e altre musiche primitive per domani"
   (2016 )

Mente ed anima del progetto catanese Niggaradio, varato nel 2013 e foriero di un ottimo debutto discografico nel 2014 (“’Na Storia”, addirittura candidato al Premio Tenco come migliore opera prima), Daniele Grasso, affermato producer (Afterhours, John Parish, Greg Dulli fra i molti), musicista ed autore, ripresenta la sua creatura in veste sì fedele alle proprie origini, ma affinando ancora meglio quell'oscuro amalgama di roots rock contaminato che già ne aveva contraddistinto l’esordio. Il verbo declinato nelle undici tracce di “FolkBluesTechno’n’Roll… e altre musiche primitive per domani” è autentico blues di strada, viscerale e sbracato, scarnificato ed essenziale, un flusso di ribollente passionalità ridotta all’osso, musica primitiva che muove da una concezione quasi waitsiana, sovvertendo e reimpastando la foga primigenia con un afflato profondamente popolare, rinunciando alla poesia nel nome di un disincantato realismo di vivida potenza. Ma quello dispensato a piene mani in “FolkBluesTechno’n’Roll… e altre musiche primitive per domani”, urgenza profonda e caparbia veemenza che celano contenuti tutt’altro che solari – al più grotteschi -, è anche un folklore sfigurato che si avvale sovente del dialetto per rimarcare ed assecondare la tendenza, musica intrisa di una tensione che raggiunge il proprio apice di belluina incisività nelle staffilate rimbombanti di “Messinregola” e “U pullman pa’ Germania”: quasi ovunque il canto si fa grido, denuncia, spoken word, di rado cedendo alla melodia rassicurante (“U balcuni ‘i l’incantu”, con la splendida voce di Vanessa Pappalardo), spesso scavando nei più reconditi anfratti delle umane bassezze con il lucido sguardo indagatore che ha reso grandi – per citarne alcuni – Cesare Basile o Vinicio Capossela. Sfilano allora sulla ribalta il cajun indolente di “Rema” ed il funk incattivito dell’opener “U me dirittu”, la cadenza ossessiva di “Signuri” e la linea di basso quasi dub de “’A fera”, passando senza cedimenti – concettuali o espressivi - dal blues sudista di “Canto’” (con splendida slide) all’aria dimessa – western e lo-fi a braccetto – della conclusiva “Dimmi unni si”, suggello ad un album che sottolinea e riafferma le doti di una band schietta e generosa nella sua personale operazione di rilettura della tradizione. (Manuel Maverna)