BLACK TAIL "Springtime"
(2016 )
Introdotto da un’altisonante cartella stampa che chiama alla sbarra nomi illustri (Wilco, Elliott Smith, Mark Linkous) al crocevia tra Americana, sadcore e attitudine folkish, “Springtime” è l’album che segna il debutto su etichetta Miacameretta Records dei Black Tail, creatura di Cristiano Pizzuti, già mente dietro il progetto “Desert motel”, qui impegnato in formazione a quattro nella intrigante rilettura di stilemi che mutano forma e direzione grazie ad un approccio al contempo elegante e diretto alla tradizione d’oltreoceano. Privo degli arzigogoli dell’ultimo Tweedy come della fosca depressione targata Sparklehorse, “Springtime” propone una scrittura intelligente dotata di solo apparente immediatezza, musica urgente ma paradossalmente ragionata che punta sulle dinamiche, quasi mai su armonie di facile presa, un fluire rassicurante che sa attrarre non senza una levigata grazia; privo di asperità, impennate o bruschi stacchi, l’album svaria ondivago tra molteplici possibili direzioni, mantenendo inalterata la propria misurata raffinatezza. Fedele a questo morbido zigzagare, la title-track apre su atmosfere bucoliche e si dilata in un finale tra Thin White Rope e Willard Grant Conspiracy con nel mezzo scordature assortite à la Pavement, seguita da una “Loose ends” di stampo quasi beatlesiano e dalla bizzarra costruzione di “Small talks”, folk campestre che riscatta la slackness dell’attacco inserendo a metà del brano una inattesa variazione ritmica che lo traghetta, in altre acque, fino all’epilogo. Rimescola le carte l’idea post di “Love is a bore”, in cui convivono echi di tutto, dai Sonic Youth più edulcorati ai Belle and Sebastian, impasti aperti e andamento da Van Pelt, come impronosticabili giungono il basso new-wave di “The day before TV” o i coretti di “November” (Simon & Garfunkel rivisitati dai Girls In Hawaii?), la psichedelia sixties di “How to be lost at sea” o la bella coda di “Treetops”, tanto avulsa dal contesto quanto abile nel riscattare la sorniona pigrizia del pezzo. E quando cala il sipario sulla ballata indolente di “Oak” la sensazione predominante è di una grande calma, suggello ideale ad un lavoro che merita lodi per la capacità di insinuarsi sottopelle con classe, eleganza, padronanza di mezzi, proprietà di linguaggio e conoscenza della materia, espressione di una band dalle notevoli potenzialità cui potrebbe forse giovare quel pizzico di azzardo in più. (Manuel Maverna)