ANGELO SICURELLA  "Orfani per desiderio, vol.1"
   (2016 )

Sospeso tra pulsioni minimaliste, rigurgiti di elettronica che si ampliano in onde liquide, linguaggio fosco intorbidito da un ermetismo talora spinto, “Orfani per desiderio, vol.1” è l’album che segna il debutto solista di Angelo Sicurella, cantante siciliano già voce del progetto Omosumo, ora impegnato nella realizzazione di un lavoro intriso di originale contemporaneità che riluce per spessore artistico, profondità concettuale, ricerca sonora. Muovendo dall’impeto emotivo originato dalla sorte avversa e disperata che fece strage di oltre 350 migranti al largo delle coste di Lampedusa nell’ottobre del 2013, Angelo trae spunto ed ispirazione per un’opera di complessa intensità che devia dall’analisi del fatto, rendendolo altresì miccia per una sorda detonazione rigonfia di tetro intimismo. Fra l’ultimo Incani ed un alone kraftwerkiano (“Bruciano”), Sicurella ordisce una trama mai lineare, snervante e cupa, in bilico tra suggestioni introverse à la Matthew Barnes ed inattesi clangori metallici: se “Lingua sul cemento” raccoglie e moltiplica sporcizia al passo scordato/monocorde di Cesare Basile, “L’amore non ci trova più” – in fondo un blues mascherato lontanissimo dal sembrarlo - ricombina sottrazioni à la Starfuckers con borborigmi baritonali da Capossela. Nascondendo le canzoni sotto una patina che ricorda a tratti la sperimentazione degli Heroin In Tahiti, talora affidandosi a debordanti rimbombi dub avvolgenti ed anticonvenzionali (“La cosa più cara”), Sicurella riesce a spiazzare sull’aria stralunata di “Carlotta”, due accordi reiterati, racconto stilizzato che dice senza narrare, paradossalmente vicina – simil-violectra compresa - ad atmosfere velvetiane. Le immagini sono sfuocate e distopiche, il timbro profondo di Angelo, strumento aggiunto che se decontestualizzato sortirebbe esiti molto differenti (un Righini più contorto?), lungi dal donare piacevolezza all’insieme mira ad accrescere il potenziale ostico di questa musica sofferente, introspettiva ed infida, concedendo rari spiragli di luce fioca, miraggi più che reali aperture: soltanto in “Qui il cielo è Strauss” si affaccia un accenno di synth-pop melodico, dance retrò che discorre di morte sulle ali di cori gospel con quella stessa algida naturalezza che ritorna nella conclusiva “Sopra la barba del temporale” e che ricorda – mutatis mutandis – lo sguardo obliquo sulle cose del grande Alessandro Fiori. E’ l’illusorio epitaffio virato in noir che suggella un album a suo modo sinistro, straordinario nell’attrarre pur impiegando un’espressività formalmente respingente, disco ammaliante come un incantatore di serpenti: incute timore, ma invita stranamente ad amarlo. (Manuel Maverna)