DOVER  "Complications"
   (2015 )

Io voglio bene ai Dover, quartetto spagnolo che canta in Inglese, vent’anni di attività fra alti (molti, con picchi di popolarità e vendite ragguardevoli) e bassi (pochi, ma sanguinosamente dolorosi) in un percorso ad ostacoli reso ancor più tortuoso da qualche improvvida scelta stilistica. Io voglio bene alle sorelle Llanos; a Cristina, passata dalla ragazzaccia degli esordi - chitarra a tracolla e microfono belluinamente impugnato, latrato indemoniato di fronte ad arene gremite, prima smilza, poi ingrassata a dismisura, indi ritrasformata - alle odierne eleganti fattezze di signora ben vestita dai modi suadenti e dal composto canto garbato; voglio bene soprattutto a sua sorella Amparo, di dieci anni meno giovane, bionda dall’eloquio pacato e riflessivo, silhouette sempre invidiabile ed una certa somiglianza con Kim Gordon. Ne sono proprio invaghito, a dirla tutta: amo il suo modo di scrivere, quei quattro-accordi-quattro sempre uguali, nemmeno fosse Davide Van De Sfroos, amo il contrasto stridente fra la sua esile, aggraziata figura ed il frastuono chitarristico che ne accompagna ogni intuizione melodica. Io voglio bene ai Dover, che ho idolatrato fino a “The flame” compreso, tanto da non crocifiggere – al contrario di legioni di detrattori che hanno gridato al tradimento ed hanno loro voltato le spalle, bollandoli di ogni possibile ignominia con truce sdegno e piccato risentimento, roba che solo la svolta elettrica di Dylan sortì – anche quello dopo (“Follow the city lights”), per non parlare di quello dopo ancora (“I ka kenè”), che per amore considero come del tutto inesistente. Per fortuna i Dover, ai quali voglio bene, non sono degli stolti: hanno riflettuto, hanno ascoltato la piazza, hanno capito di aver forse commesso una leggerezza (ma è mai un errore seguire un’idea, specie in musica?), sono andati a Canossa, e da lì sono tornati pentiti, contriti e redenti con in mano “Complications”, un pugno di dieci canzoni come quelle di una volta, come se nulla fosse accaduto. Se si pensa che “The flame” risale alla preistoria datata 2003, i conti sono presto fatti: dodici lunghi anni fra l’ultima bordata rock – che già bordata non era più – e questo cavallo di ritorno, umile disco dell’abiura che recede agli albori, con tante scuse. Certo dodici anni sono un’eternità che, all’insegna di meno urla e più coretti, meno decibel e più “yeah-yeah” o “uh-uh”, affievolisce la furia e l’urgenza dei fasti d’antan, ma onestamente di meglio non si poteva chiedere a questi quattro ex-giovani ritornati bellicosi – almeno nelle intenzioni e nelle urla sguaiate di Cristina in “Crash”– come ai bei vecchi tempi; forse è tardi per riguadagnare le posizioni perdute (lo cantano sia nell’opener “Too late” che nell’amara “Four to the floor”), ma la loro onestà intellettuale va comunque lodata, ed io – che mai mi sono sottratto al sognato abbraccio di Amparo – non ho nemmeno bisogno di perdonarli. Mi bastano quei quattro-accordi-quattro, quella ostinata assenza di un lento, quella caparbia ricerca dell’accordo minore, dell’incastro perfetto, quel 4/4 reiterato fino allo sfinimento, quella chitarra che gracchia incessante in pezzi di tre minuti privi di svolazzi o inservibili orpelli; e non mi importa che un pezzo divino come “Sisters of Mercy” (nessun riferimento ad alcunché) somigli paurosamente a “King George” – anzi, ne sono felice – né che quei passaggi siano già stati abusati in tutti i loro migliori lavori, alcuni dei quali ho mandato ad imperitura memoria. Va bene, va bene così, the boys are back in town, è di nuovo primavera, ed io – se non si fosse ancora capito – voglio bene ai Dover. (Manuel Maverna)