PINK FLOYD "The endless river"
(2014 )
Difficile, commentare un disco che esce 20 anni dopo la sua registrazione, o quasi. Specie e soprattutto se si parla dei Pink Floyd, roba quindi che necessiterebbe, a prescindere, un attimo di calma e tranquillità. E di rispetto, quello per cui ci si sente inadeguati a qualsiasi tipo di giudizio, visto e considerato quello che c’è dietro eccetera. E visto e considerato come la materia sia difficile, dal momento che ci sono floydiani che reputano morta la band dall’addio di Roger Waters, altri che addirittura non li considerano più dalla defenestrazione di Syd. Ergo, andare a collocare questo fiume infinito come semplice speculazione di mercato potrebbe essere quasi un riflesso automatico. Come capita a quei (tanti) personaggi che ormai non possono più reagire causa motivi di forza maggiore – decessi – e che non sanno come la propria discografia sia stata espansa. Qui il caso è diverso, qui chi ha deciso di pubblicare ne aveva pieno diritto, anche solo come motivo per onorare la memoria del defunto Richard Wright. “C’è tanta gente a cui questa musica piace ancora”, dice David Gilmour, e vagli a dare torto. Il problema, di questo disco, è che è vecchio. Attenzione, non nel senso di musica vecchia, retrò o cosa. Quanto piuttosto che è fuori dal tempo attuale, fatto di mordi e fuggi, di rapidi inserimenti in blande strumentazioni tascabili, di canzoni spezzettate e cose simili. “The endless river” andrebbe ascoltato come si faceva con i dischi dei Pink Floyd tanti, tanti anni fa: mettendolo nello stereo, sedendosi in poltrona, staccando il telefono e il citofono, e dire “non ci sono per nessuno” per un’oretta. Qualsiasi altro tipo di fruizione, ecco, gli farebbe perdere smalto: tradotto, o vi fermate per ascoltarlo, o è inutile anche solo iniziare. Poi chiaro, qui non c’è niente di nuovo, anzi, ci sono alcuni passaggi che sembrano dei bignamini dell’antichità (“Allons-y 1”, che ricorda tanto i tempi di “The wall”, che sfocia in “Autumn 68”, brano che rimanda al proprio titolo), oltre a tante sonorità figlie, per forza di cose, dei tempi di “The division bell”, fino all’unica vera canzone cantata, “Louder than words”, che sembra una versione soft di “What do you want from me”. Insomma, che fare? Considerarlo un’inutile appendice? Qualcosa solo per completisti? Di certo, è un disco dei Pink Floyd, con annessi e connessi. Utile, inutile, superfluo, chissenefrega. E se poi nel 2014 non c’è più modo e maniera di ascoltarli come andrebbero ascoltati, non è certo colpa loro. (Enrico Faggiano)