SUN KIL MOON  "Benji"
   (2014 )

Mark Kozelek, artista che da anni vive rinchiuso nella virtuale turris eburnea dalla cui sommità dispensa con maniacale, martellante frequenza il proprio Verbo, fatto di logorroici solipsismi in spoglia veste intimista, è oramai oggetto di culto, materia inaffrontabile per i neofiti, inavvicinabile ed imperscrutabile figura ammantata di una ieratica, mistica aura. Smembrati da tre lustri gli epocali Red House Painters, sfuocata sullo sfondo la primigenia versione della reincarnazione Sun Kil Moon – quella dei primi due album, in cui una backing band esisteva ancora, eccome -, Mark si è incuneato in quella eremitica involuzione degli ultimi lavori, nessuno dei quali – confiteor - realmente memorabile. Re di una strisciante melanconia e di un opprimente, inestinguibile male di vivere celebrato in composizioni divenute, nel corso degli anni, sempre più scarne ed esangui, nel crepuscolo di una carriera dai trascorsi fastosi, ma destinata alla perpetua reiterazione di una tediosa e presuntuosa autocelebrazione, con “Benji” Kozelek si ridesta all'improvviso dal soporifero torpore che pareva averne prosciugato l'ispirazione. Sconvolto dalla inattesa notizia della prematura scomparsa di una cugina di secondo grado in un tragico, accidentale incendio, Mark torna nel natìo Ohio per il funerale e nei suoi luoghi di origine rivede i genitori, qualche amico di famiglia e legioni di fantasmi riemersi da un passato tanto lontano quanto indelebilmente scolpito nella memoria. Il risultato è un album che si discosta da ogni capitolo della sua produzione, pur conservando intatti i tratti salienti che fin dagli albori ne hanno contraddistinto la poetica: “Benji”, così come il meraviglioso “April” del 2008, è ugualmente un disco interamente incentrato sulla morte, senza astrazioni né elucubrazioni esistenzialiste (quelle degli esordi targati Painters, per intenderci), enciclopedico compendio autobiografico che ha ben pochi eguali nella storia del rock. Sullo sfondo di una pigra America di provincia, Kozelek allestisce una rappresentazione senza filtri di sé stesso, rielaborando una sorta di “Spoon River” in musica, un libro dei morti nel quale questo ombroso, scontroso, irascibile quarantasettenne ricostruisce la propria vita attraverso alcune delle tappe – persone, luoghi, fatti - che l'hanno segnata. Come se non ci fossero né un possibile futuro né il tempo per raccontare compiutamente una esistenza infarcita di troppi episodi, poco importa quanto significativi, Mark infila nel suo greve fardello tutto ciò che conta, prima di svelarlo al mondo con una voce mai così carica e sofferta, arrochita dal tempo, schiacciata dal peso di un dolore troppo a lungo trattenuto e mai del tutto metabolizzato: la rinuncia alla mediazione non è mai apparsa con evidenza tanto feroce come in “Benji”, opera che svela probabilmente il lato più oscuro di un artista finalmente denudatosi di fronte ai propri demoni. Disco dall’esordio ingannevole, affidato a due litanie arpeggiate nello stile dell'ultimo Kozelek: ma l'opener “Carissa” è proprio il racconto dell'incidente nel quale la cugina ha perso la vita, un testo la cui drammaticità prende corpo e forma come una valanga da una palla di neve, così come la successiva “I can't live without my mother's love”, sempre in punta di chitarra acustica, si schiude a pensieri funesti laddove sembrava esaurirsi in una tenue dichiarazione di amore filiale. Da lì in poi, fatta salva la tetraggine opprimente che ne ammanta l'atmosfera, “Benji” cambia registro e si tramuta nel lontano parente di un disco rock: ci sono – incredibile – altri musicisti, tra cui Steve Shelley dei Sonic Youth dietro le pelli, e sembra una vera band in carne ed ossa (anche se in realtà Mark suona quasi tutti gli strumenti) quella che ricama una “Dogs” da brividi, con Kozelek impegnato a mettere in fila, in rigoroso ordine cronologico, le molte donne della sua vita, ricorrendo addirittura ad una scabrosa, inedita trivialità a seppellire le poche tracce di sentimentalismo. C'è spazio perfino per il boogie downtempo di “I love my dad” e per l'incalzante fingerpicking in minore di “Truck driver” (sullo stile della catacombale “Heron blue” di “April”), così come per la ondeggiante marcetta tastieristica della falsamente disimpegnata “Jim Wise” (unico brano composto in collaborazione: la musica è dell'amico Owen Ashworth, in arte Casiotone For The Painfully Alone), prima che i dieci interminabili minuti di “I watched the film The Song Remains The Same” riprecipitino in un momentaneo baratro il tono in crescendo dell'album. Ci pensa l'incalzare incattivito della tesissima “Richard Ramirez died today of natural causes” a riprendersi la scena per il gran finale, introdotto dall'ennesima parata di spettri di “Micheline” e chiuso su una improbabile aria lounge dalla swingante ballata laid-back della toccante, desolata “Ben's my friend”, contrappuntata addirittura dal sax struggente di Forrest Day. In un'ora di intensità letteralmente soffocante, su un Golgota spostato in Ohio, Mark biascica il suo capolavoro, si mangia le parole, trascina le vocali, modifica accenti, tronca sillabe, stipa vocaboli in cunicoli angusti, declama i suoi straziati interminabili versi col solo supporto di un unico giro a fungere da base per l’inconfessabile; per una devastante ora di redenzione torna ad essere quel re che stava per abdicare, e che con un coup de teatre imprevedibile mostra ai suoi sudditi che non potranno avere altro sire all'infuori di lui. Finché sorella morte non li separi. (Manuel Maverna)