TOM PETTY & THE HEARTBREAKERS "Hypnotic eye"
(2014 )
Rocker per agguerriti nostalgici o nostalgico agguerrito rocker d’antan, poco conta: eccellente songwriter di onesta coerenza e di mai scalfita caratura, quaranta ruggenti anni di carriera nel solco di quella tradizione Americana che lo annovera a pieno titolo tra i suoi maggiori esponenti, giunto al traguardo delle sessantaquattro primavere, la leggenda vivente Tom Petty da Gainesville, Florida, dispensa con il nuovo “Hypnotic eye”, sedicesimo capitolo di una discografia solidamente consistente, un magheggio sì di maniera, ma rigonfio di quella cristallina ispirazione che ne ha decretato l’ingresso tra le grandi voci popolari d’oltreoceano. Superfluo ed ininfluente sarebbe smarrirsi in uno sterile gioco di rimandi, citazioni, riferimenti ed assonanze: spogliato di ogni ridondante aggancio, “Hypnotic eye” raccoglie quarantaquattro minuti di musica essenziale, squadrata, priva di fronzoli, orpelli o inganni, undici tracce cucinate con i consueti ingredienti che hanno reso Tom Petty un’icona gentile dell’America che fu, cantore elegante del sogno esistenziale caparbiamente inseguito (“American Dream plan B”, con voce filtrata e metrica del testo che ricordano – chorus a parte – la “Word up” dei Cameo), aedo disincantato ancora capace di inanellare con disarmante semplicità una serie impressionante di rime e ritornelli, in barba alle mode, alle tendenze, ai mutamenti. Meglio allora lasciarsi trasportare dalla corrente, e godersi questo compendio d’arte rurale incapace di sprecare note o canzoni, in un mirabile esempio di stringato minimalismo compositivo che senza requie richiama al proscenio i più classici, abusati, immarcescibili 4/4, perfetti per pennellare la dimessa ballata di “Red river” o lo shuffle ruffiano di “Full grown boy”, la tirata di “Forgotten man” (in pratica una copia di “A mind with a heart of its own” da “Full moon fever”), o il boogie devastante della bonus-track “Playin’ dumb”. Nel mezzo del cammino – lineare, ma crepuscolare – Tom dissemina schegge sparse di sopraffino mestiere, dalla sassata roots di “Power drunk” (tra BB King e Slowhand) al talkin’ blues di “Burnt out town” (al crocevia tra Johnny Lee Hooker e la “Rainy day women” di dylaniana memoria), passando ora per la cavalcata tex-mex della trascinante “Fault lines”, ora per la sfuggente, intensa melanconia di una “Sins of my youth” da brividi, senza mai sorprendere, senza mai deludere. Delizioso disco di passaggio che regala lampi di adamantina classe, album al quale non occorre domandare nulla più dell’intrattenimento che, generosamente, regala. (Manuel Maverna)