POLVO  "Siberia"
   (2013 )

La genialità di Ash Bowie e Dave Brylawski, entrambi voce e chitarra nonchè spina dorsale dei seminali Polvo da Chapel Hill, North Carolina, risiede in una concezione della musica rock totalmente estranea a quella dominante. Spesso impropriamente accostati ai Sonic Youth per l’intento destrutturante, in realtà il quartetto perseguì il proprio astruso disegno utilizzando un linguaggio differente rispetto alla band di Thurston Moore: se quest’ultimo privilegia infatti lo smembramento della forma-rock come contraltare della nevrosi ad esso sottesa, l’operazione dei Polvo è più cerebrale e – in un certo senso – fine a sé stessa. Nelle loro spiazzanti divagazioni, i quattro non intendono necessariamente comunicare qualcosa di significativo: non importa tanto ciò che dicono, ma come lo dicono, mentre nei Sonic Youth assume una rilevanza non trascurabile anche l’aspetto contenutistico. Musica emotivamente priva di un centro, quella dei Polvo è forse una sorta di sghemba psichedelia che aspira alla trance, ma impiegando una tecnica differente: mira all’estraniazione sottraendo punti di riferimento, analogamente - mutatis mutandis – all’ottica dei Pavement in ambito pop. “Siberia”, che segue a quattro anni di distanza l’incerto “In prism”, riconsegna inaspettatamente i Polvo ai fasti dei mid-90’s grazie sia al recupero delle contorte trame che ne decretarono l’unicità e li resero un nume tutelare per l’indie-rock tutto, sia ad una ritrovata vena creativa nel solco dei migliori lavori della fase matura. Pur conservando in alcuni episodi la recente tendenza alla ricerca di architetture più lineari (sebbene mai semplificate, come ad esempio in “Light, raking” o in “Changed”) e nonostante l’impiego di figure (dis)armonicamente meno intricate, la band rispolvera in toto gli usuali stilemi distintivi: ad una intro più o meno dilatata (quella di “Blues is loss” supera i tre minuti) fa seguito un nucleo centrale contenente il tema portante – si fa per dire – del brano, chiuso quasi immancabilmente da una coda di dissonanze intrecciate, talora avulse dal contesto. E’ quanto puntualmente accade nell’iniziale, tumultuoso ingorgo chitarristico di “Total immersion”, ed è lo stesso procedimento che va in scena nella già citata “Blues is loss” come nella conclusiva “Anchoress”, che collassa su un arrovellato tema di tre minuti tra singhiozzanti pause ed impennate repentine, o ancora nella tempesta elettrica à la Built to Spill dei sette minuti di “The water wheel”, saturazione rumorista più caotica e meno cervellotica. Album splendidamente autoreferenziale, “Siberia” indulge di continuo nell’autocitazione sciorinando eloquenti magheggi, capaci di affabulare sia chi aveva amato i Polvo di “Exploded drawing” sia chi, invano, tentava di comprenderli da vent’anni, senza successo: disco paradossalmente gradevole nella sua insistita ricerca di un linguaggio espressivo lontano anni luce da quello del rock, dimensione che, ingannevolmente, suggerisce un istante prima di demolirne l’essenza stessa nello spazio di due accordi. Ovviamente dissonanti. (Manuel Maverna)