FENCES "Fences"
(2010 )
In prima analisi, potrebbe sembrare di trovarsi al cospetto dell’ennesima declinazione – non così spartana, bensì aggraziata e suadente – del verbo folk-rock, emanazione di quell’Americana tanto cara e gradita olteoceano: ma la musica di Christopher Mansfield – in arte Fences, inizialmente moniker a celare un progetto solista, oggi divenuto una vera e propria band –, artista mite e gentile intorno alla trentina, ex-alcolista dallo sguardo tranquillo, modi garbati e indole tanto mansueta quanto umbratile, è qualcosa di più, forse addirittura qualcosa di diverso. Il corpo ricoperto di tatuaggi, uno zucchetto di lana a nascondere la calvizie incipiente, Chris ha movenze lente, gesti misurati, voce pacata e dipinta sul viso un’espressione lievemente imbronciata, distante, cupa. Le sue canzoni gli somigliano, lo rappresentano e lo raccontano meglio di molte parole; sono canzoni delicate, di una dolcezza rassegnata e tenera, anche quando trattano di morte e perdizione (“Sadie”), di emarginazione (“Boys around here”), di amori stracciati e gettati via (“From Russia with...”): ogni testo brilla per desolata concisione, distillando in pochi versi un triste mood depresso aggrappato a poche istantanee, che sono altrettanti flash, immagini, pezzi di storie ricucite ed inconcluse rimaste tali (emblematico il mid-tempo contagioso di “Same tattoos”, racconto senza un finale), nella realtà o nella memoria poco importa.
Co-prodotto dalla mentore, estimatrice, talent-scout ed amica Sara Quin (Tegan & Sara), l’album proietta un’aura soffusa e - a suo modo - rassicurante, pur senza rinunciare ad un costante velo di sottile malinconia difficile da squarciare; la grazia che riluce da queste dieci esili composizioni da pochi minuti ciascuna sta tutta nella garbata – ma vibrante ed intrisa di sofferta emotività – interpretazione ed in una costruzione che le avvicina molto di più a certo pop esistenzialista (Cure in primis, influenza peraltro sempre dichiarata) che non alla tradizione statunitense. Disco minimalista, carezzevole e mai invadente, intriso di una pulsante, ineludibile depressione che permea tutti i suoi fugaci trentadue minuti, “Fences” gioca con il pop disimpegnato (bello immaginare “Girls with accents” cantata da Robert Smith...) e con l’alt-country (la superba cavalcata in minore, su variazioni infinitesimali di due accordi, di “My girl the horse”, contrappuntata dalla voce di Sara Quin), con la rilettura del folk-rock (“Hands”, corretta da maracas à la Iron&Wine) e con l’intimismo tipico del sadcore (“From roses” ricorda il grande Kozelek), sempre conservando la leggerezza di un alito di vento.
Album eccelso che non spreca una nota, un verso, un sospiro, un chorus: manifesto di essenzialità, lavoro delizioso nella sua scheletrica semplicità, espressione di un’anima timidamente inquieta in lotta con i propri demoni. (Manuel Maverna)