BAND OF SUSANS "Here comes success"
(1995 )
I Band Of Susans di Robert Poss e Susan Stenger sono un quintetto americano dedito alla colta esplorazione del concetto di rumore. Strano ibrido fra la forma shoegaze britannica (My Bloody Valentine meno astratti) e la sostanza noise intellettuale Usa (Sonic Youth meno dissonanti, Yo la Tengo meno fantasiosi, Built to Spill meno articolati), diedero alle stampe cinque album di levatura notevole (la line-up del secondo comprendeva anche Page Hamilton, poi leader degli Helmet) prima di sciogliersi nel 1996 dopo dieci anni di attività. La band prevede sempre l’impiego di tre chitarre, usate in forma sonica ma consonante, ciascuna delle quali modula una parte – quasi sempre distorta su frequenze medie – a sé stante con un unico accordo a fungere da sostegno al brano. L’album, che è l’ultimo della loro carriera, è diviso in due parti ben distinte, con la cesura rappresentata da un breve strumentale. I primi quattro pezzi sono costruiti secondo una struttura più vicina al rock di stampo tradizionale, con un giro armonico che prevede variazioni, seppure minime. L’iniziale “Elizabeth Stride” parte in sordina con una cupa intro di basso, lasciando spazio a figure chitarristiche altrettanto oscure poi accompagnate dal canto sommesso della Stenger: la ritmica entra dopo alcuni minuti, ed insieme al gorgo formato dalle chitarre in crescendo contribuisce a creare un effetto stordente, quasi psichedelico. A ben vedere, sembra proprio questo lo scopo principale della band: il muro sonico è talmente compatto da suscitare un senso di stralunata, straniante quiete nonostante il frastuono sia spesso assordante. Lo schema si ripete all’infinito con alterazioni talvolta gradevoli (“Dirge”) talvolta sorprendenti (il riff di “Hell bent” che deflagra in distorsioni senza fine ed il passo quasi mainstream del noir “Pardon my French”), sempre dipanandosi in composizioni lunghe (quasi tutti i brani si aggirano tra i sette e i dieci minuti) e più articolate di quanto possano sembrare ad un ascolto superficiale, canzoni immancabilmente interpretate con freddezza glaciale dal canto-parlato monocorde della Stenger o di Poss che si alternano al microfono. Nella seconda parte il clima si appesantisce ulteriormente, con tre brani (“Two jacks”, “Stone like a heart” ed il lunghissimo strumentale “In the eye of the beholder”) impostati interamente su un ripetitivo registro minimalista: sono venticinque minuti complessivi con tre soli accordi – uno per brano – scomposti e rimontati in ogni possibile foggia, in una sorta di cubismo musicale apprezzabile dal punto di vista concettuale, non sempre da quello emotivo. La chiusura di “Sermon on competition”, il solo episodio intorno ai quattro minuti, suggerisce l’ultimo esperimento: sempre un unico movimento, ma lanciato a velocità doppia da una ritmica insolitamente serratissima che conduce il brano nel nulla. Geniali, o forse solo elitari senza cuore e con molto cervello. (Manuel Maverna)