WILCO "Yankee hotel foxtrot"
(2002 )
I Wilco di Jeff Tweedy sono una band di Chicago originata dallo scioglimento degli Uncle Tupelo, ensemble che agli inizi degli anni ’90 rivitalizzò il cosiddetto alt-country imbastardendo rock e folk rurale. Seguendo un percorso di progressivo affrancamento dalla musica degli esordi, Tweedy e soci pervengono così a “Yankee hotel foxtrot”, disco che si pone e si propone come qualcosa d’altro, una forma musicale ibridata, una sorta di mutazione genetica fondata su un avanguardismo mai invadente nè eccessivamente fondante, ma comunque tale da impregnare di sè ciascuna di queste undici tracce elaborate ed evolute. Si tratta di un lavoro quasi mai immediato, quasi mai fruibile con leggerezza, ma inspiegabilmente godibile per lunghi tratti: perso per strada l’alt-country degli esordi, il quintetto si concentra dunque su un progetto la cui forza e peculiarità risiedono negli arrangiamenti più che nello spessore dei singoli brani che lo compongono. “Yankee hotel foxtrot” si configura come operazione a metà tra forma e concetto, figlia di una ricerca sugli arrangiamenti approfondita ed insistita, in aperta antitesi con le origini popolari del country-folk da cui prende le mosse ed in sintonia con i dettami della musica colta di matrice intellettuale. I sette minuti del brano di apertura “I am trying to break your heart” offrono subito un subdolo impasto di dissonanze, rumori e trucchi che deviano la melodia pigra della canzone dal tema principale, così come la ballata apparentemente catchy di “Kamera” inciampa su qualcosa di indefinitamente fuori posto (un suono? Il vibrafono? Il lungo accordo finale ripetuto per sedici battute?) e con voce lamentosa Tweedy intona dimesso la litania di “Radio cure” su un battito agonizzante ed un pianoforte scordato. E’ una musica sbriciolata in mille frammenti, ma elegante e curatissima, un collage fatto di Steely Dan (forse l’influenza più udibile in assoluto), Creedence Clearwater Revival (la girandola di dissonanze di “War on war” con tanto di cacofonia finale), America, Eagles (“Ashes of American flags”, che con artifizi vari si infila in un cul-de-sac di rumorismo cosmico), Lynyrd Skynyrd (il boogie sudista di “I’m the man who loves you” con tanto di fiati soul e solo di chitarra distorto) e schegge provenienti da quarant’anni e più di musica raccolta in giro per il mondo, dalla strada ai club: la sintesi è un Wilco-sound con molti padri e nessun figlio. Sorprendono allora – ma non tanto, viste le premesse – sia il pastiche di “Poor places” (piano da cabaret, percussioni caraibiche ed inciso beatlesiano) sia la dilatazione trance-ambient della conclusiva “Reservations”, ma non più del (deboluccio) singalong della leggera “Heavy metal drummer” o della ballata levigata di “Pot kettle back”, incredibilmente prossima ai Jesus & Mary Chain della svolta acustica. Su tutto, come avulsa dal bizzarro contesto che la band padroneggia comunque con scioltezza rimarchevole, troneggia la melodia di “Jesus, etc.”, dipanata in un soffice afflato di bellezza cristallina entro un’oasi invisibile che sa di Al Stewart e di Paul Simon, lieve come una piuma, morbida come una carezza. Disco ragionato ed artefatto, cerebrale senza necessariamente sembrarlo, ricco di canzoni in definitiva abbastanza fredde, forse non così belle se disgiunte dalla manipolazione cervellotica di cui sono vittime. (Manuel Maverna)