PROZAC+  "Testa plastica"
   (1996 )

I friulani Prozac+, oggi dissoltisi in una pausa indefinita dopo avere goduto di una certa fama sul finire del millennio, hanno detto quello che avevano da dire, e va bene così. Inconfondibili sia il loro sound, sia il proporre in Italia una inusuale bordata pop-punk politicamente scorretta e di palese orientamento “tossico” - per di più in lingua italiana - sia infine il canto di Eva Poles (oggi nel collettivo aperto Rezophonic) dagli inespressivi occhi di ghiaccio, ugola flautata monocorde e cantilenante, fredda ed impassibile nello snocciolare le storie drogate cucitele addosso in terza persona dal padre-padrone Gian Maria Accusani (oggi Sick Tamburo). “Testa plastica”, datato 1996, segna il debutto sulla lunga distanza del trio, all’insegna di dodici tracce (più la discreta cover di “Gone daddy gone” dei Violent Femmes aggiunta nella ristampa del 1997) brevi e cattive che ergono la velocità ritmica e le insolite cesure delle liriche - l’accento delle parole che chiudono il verso finiscono sempre sull’ultima sillaba - a loro tratto distintivo; non immaturo, ma acerbo, “Testa plastica” è un disco che mostra da subito le credenziali del trio ed apre loro la strada all’inatteso successo di massa e di classifica del successivo “Acido acida”, prima della lenta ridiscesa in territori di nicchia, lontani dal clamore e certo a loro più congeniali. Nulla di impressionante, ma a ben pensarci non sono molti gli esempi analoghi nel panorama italiano: in trentacinque minuti vanno in scena storie di droga, perdizione e sconfitta, racconti minimali fatti di poche semplici parole che descrivono succintamente le vite inutili di derelitti intenti a celebrare la propria autoflagellazione (“Niki”, “Sola”), schegge di violenza assortita spogliate della loro componente negativa e rese spettrali nella loro nudità (“Legami”, “Senja”), inni improbabili alla droga ed alla diversità (“Pastiglie”, “Diversi”), il tutto offerto con agghiacciante naturalezza e sorprendente freschezza. Disco tanto fruibile quanto eversivo, quasi allarmante nella sua algida esaltazione di taluni aspetti appartenenti ad una dis-umanità tradizionalmente considerata esecrabile. (Manuel Maverna)