PATTI SMITH  "Easter"
   (1978 )

La pasionaria Patti Smith, icona generazionale del rock al femminile, musa trasgressiva e sciamanica, spinge da quarant’anni la propria rabbia rivoluzionaria sulle ali di una musica ruvida, grezza e diretta, priva di orpelli, sovrincisioni, preziosismi e raffinatezze di sorta. E’ un rock strutturalmente scarno, semplice e lineare nella scrittura, che procede senza interruzioni attraverso giri chiusi e ripetuti di pochi accordi e piglio barricadero, un rock spesso venato di una sottile tristezza di fondo che ne smorza in parte il truce incedere. L’afflato misticheggiante, paradossalmente intrecciato con una sincera verve iconoclasta, conferisce spessore a testi già di per sè sovraccarichi di immagini e proclami ed infonde linfa salvifica in composizioni piuttosto depresse, opprimenti ed oscure. Nulla è ridondante in questi pezzi scarni, proposti senza filtri quasi fossero dati per buoni alla prima take, un live-in-studio sbavato condotto ai limiti della stonatura (“Space monkey”), essenziale nella sua elementare stesura e decisamente datato nel sound: l’impietoso scorrere del tempo non risparmia la melodia epocale di “Because the night”, nè la cavalcata be-bop di “Rock n roll nigger”, con una chitarra che non riesce mai a deflagrare vittima di un timbro compresso all’inverosimile; e il tempo non aiuta gli abusati riff di “Till victory” o di “Privilege” (introdotta da un organo da chiesa), nè il boogie sudista di “25th floor”, nè tantomeno l’ossessiva cadenza tribale della cantilena folk-hippie di “Ghost dance”, il cui passo sinistro è smorzato dalla debolezza del mixaggio finale. In definitiva, reggono meglio all’usura del tempo il lentaccio terzinato di “We three”, complice un sound molto easy, la furiosa frenesia di “High on rebellion” con un devastante tourbillon chitarristico ed un autentico marasma sonico ante-litteram e la ballad dimessa e raccolta della title-track coi suoi rintocchi di campana quasi epici. Ma la dimensione del disco non è neppure lontanamente sufficiente a catturare l’energia che Patti e la sua band erano in grado di sprigionare on stage, ed anzi penalizza oltre misura – complice anche il fisiologico invecchiamento di un’opera oramai ultratrentennale – la potenza di brani nati per essere proposti senza l’intermediazione di un qualsiasi supporto, fosse il vinile di allora o il cd remasterizzato dei giorni nostri. (Manuel Maverna)