FUGAZI  "End hits"
   (1998 )

Forti di un approccio al contempo colto – ne è espressione il lavoro di cesello sugli intrecci (dis)armonici e sull’impianto sonoro in generale –, sinistroide – con testi sempre orientati all’opposizione socio-politica all’establishment – e ruvidamente oltranzista – si vedano sia la durezza del sound sia l’assalto frontale che ogni traccia suggerisce -, ai Fugazi di Washington D.C. va ascritto il grande merito di avere superato la relativa linearità ed unidirezionalità dell’hardcore militante imbastardendolo con elementi mutuati dal post-rock, del quale conservano la destrutturazione e rigettano gli inservibili orpelli cerebrali. In una serie di album impeccabili per coerenza e cifra stilistica, per intensità e creatività, il genio pionieristico di Ian MacKaye e dei suoi tre immarcescibili ed inseparabili accoliti hanno marcato un territorio ed indicato – al tempo stesso – una nuova via lungo la quale convogliare i resti di due generi inariditi (l’hardcore ed il post-rock, per l’appunto), il cui destino appariva oramai segnato da una irreversibile ed ineluttabile obsolescenza. Grazie ad un’inventiva non comune, i quattro riescono a creare un climax vorticoso condensando furia e pathos in brani di tre minuti (l’iniziale “Break” riesce a lievitare beffarda in poco più di due), ordigni innescati la cui deflagrazione è affidata al crescendo emotivo ed all’insistente accumulo e rilascio di tensione: di rado le canzoni iniziano e finiscono allo stesso modo (“Place position”, “Recap Modotti” col giro portante di basso che viene sostituito da uno simile a metà del brano), mutando il ritmo e/o la melodia portante in forme talora subdole e per il tramite di aggiustamenti graduali addirittura impercettibili (“Foreman’s dog”). Le due onnipresenti chitarre dialogano costruendo architetture mirabili ed intrecci imprevedibili, pur senza giungere ad edificare un wall of sound di matrice sonica, piuttosto sorreggendo i brani come se esclusivamente dalle loro trame dipendessero la vita e lo sviluppo degli stessi (lo strumentale “Arpeggiator”, avvolto a spirale attorno ad una scala basilare). “End hits” è album che appartiene alla fase matura e consolidata della carriera dei Fugazi, disco ambiguo ed ambivalente sin dal titolo, opera che compie un ulteriore passo in avanti rinunciando in parte alla sovraccarica, falsamente rozza espressività dei lavori precedenti per sposare un approccio più scopertamente intellettuale ed un’estetica formale irrintracciabile prima di allora. Il tono generale appare più riflessivo (non rilassato, nonostante tutto), le atmosfere più rarefatte, a tratti quasi sospese in bozzetti che sfiorano trame avanguardistiche (l’insolita “Floating boy”, la stralunata “Guilford fall” o l’inconclusa “Pink frosty”), mentre solo di rado riaffiorano sprazzi caratterizzati dalla passata brutalità (la tirata belluina di “Five corporations” e buona parte di “Caustic acrostic”) e men che meno refrain compiuti degni di questo nome (in “No surprise” fa capolino un abbozzo di ritornello); eppure l’impressione generale resta quella di un album sì ostico, ma ascoltabile e fruibile nonostante i mille trucchi e le innumerevoli asperità di cui è disseminato. Disco accessibile - per quanto accessibili possano essere considerati i Fugazi – ma non imprescindibile, sebbene non così lontano dai vertici della produzione di questo ineguagliabile ensemble di musicisti che con inusitata intelligenza hanno saputo eleggere la lotta sociale a forma d’arte. (Manuel Maverna)