MASSIMO VOLUME  "Aspettando i barbari"
   (2013 )

A patto di accettarne la logica a suo modo estremista, un album dei Massimo Volume contiene quasi esclusivamente ottime canzoni. “Aspettando i barbari”, nuovo lavoro a tre anni di distanza dalla impronosticabile rentrée di “Cattive abitudini”, contiene invece alcune ottime canzoni a fianco di altre forse non così essenziali come in passato. Lo stile rimane unico e inconfondibile, con brani a volte tesi, a volte più riflessivi, sempre aventi come filo conduttore la narrazione di Emidio Clementi, aedo sui generis, penna pungente e intelletto fine. Difficile introdurre in questa inveterata formula novità capaci di rivitalizzare un prodotto talmente consolidato da apparire intoccabile; arduo modificare una ricetta che, nonostante continui a dare i suoi frutti, inizia tuttavia a mostrare qualche inevitabile accenno di logoriò, prigioniera di sé stessa e dell’impossibilità di divenire altro. Ma Clementi è personaggio intelligente ed illuminato, e con i fedeli accoliti cerca in “Aspettando i barbari” di innovare come possibile, senza giungere a snaturare l’impianto basilare della sua complessa arte. In primis, grazie anche alla nuova linfa portata in dote da Stefano Pilia (entrato nel gruppo in “Cattive abitudini”), si scorge qualche timido mutamento nella scrittura, con l’introduzione di progressioni dissonanti e di testi più introspettivi ed ermetici (la title-track è significativa sotto entrambi gli aspetti). Accresciuto è poi – a tratti - l’impiego dei sintetizzatori a discapito dei dialoghi tra le due chitarre; ed infine emerge un significativo intervento sui suoni, che divengono, grazie ad un mirabile lavoro di produzione e di arrangiamento, saturi e rimbombanti come mai in passato. Il risultato è un album che, specialmente in alcune tracce, tradisce forse un minimo di stanchezza o solo un lieve calo di ispirazione; fanno capolino episodi incerti, a partire da quella “Vic Chesnutt” che rischia lo scivolone in virtù di un testo discretamente scontato, quasi forzato (il punto di vista della narrazione tende forse a banalizzare la figura di Chesnutt anzichè esaltarla), ma che si risolleva grazie ad una contorta disarmonia, per proseguire con “Compound”, che di nuovo nasconde un testo vacuo sotto una insolita coltre di rumorismo dilatato. “Silvia Camagni” suona piuttosto fiacca, sia nelle liriche che nel passo monocorde, prima di collassare in una cupa coda strumentale del tutto avulsa dal contesto, introduzione al distorto racconto di viaggi e ricordi di “Il nemico avanza”, anch’essa vittima di un certo manierismo espressivo. Ma fortunatamente un disco dei Massimo Volume non può mai – per definizione e per sua stessa natura – essere “brutto” o “sbagliato”: per lodare un’ennesima volta il genio di Mimì è sufficiente allora farsi risucchiare dall’ingranaggio ed apprezzare lo strabordante esistenzialismo urlato dell’iniziale “Dio delle zecche”, o cedere al passo quasi mainstream (sic!) di “Dymaxion song”, che vanta addirittura un accenno di ritornello cantabile, o ancora lasciarsi cullare dalla girandola di nomi e volti che si susseguono in “La notte” ed affogare nella coda palpitante di “La cena”. Pare a tratti di vagare in un ammaliante diorama disseminato di rimandi e citazioni, un vortice ubriacante di riferimenti che trova la propria sublimazione nella fosca, opprimente cadenza della conclusiva “Da dove sono stato”, indifferentemente testamento, commiato, viatico, addio o promessa di non ritorno da qualche non-luogo di questo mondo. Disco che è come un bel colore, lucente un tempo ed ora sbiadito: sempre bello, ma non più lo stesso. O se preferite il paragone, un po’ come pranzare ogni giorno alla tavola di un grande chef, mangiando sempre e soltanto lo stesso piatto: ottimo, ma sarebbe forse il caso di variare il menù, magari rischiando qualcosa in più. De gustibus... (Manuel Maverna)