LOUISE ATTAQUE "Comme on a dit"
(2000 )
I Louise Attaque segnarono indelebilmente il rock francese nel 1997. Dopo anni di gavetta e con la produzione di Gordon Gano e Brian Ritchie dei Violent Femmes (influenza sempre dichiarata) consegnarono alle stampe ed alla storia il loro omonimo album di debutto. Fu uno shock che li portò in breve tempo a vendere oltre due milioni e mezzo di dischi (terzo album più venduto di sempre in Francia) ed a guadagnarsi una popolarità imperitura. Era un lavoro fortemente marcato dal verbo del folk acustico, fatto di ballate veloci ed incalzanti e di ben poca elettricità, una scarica di canzoni orecchiabili, brevi, dal passo sostenuto e dall’appeal irresistibile. Quando all’inizio del 2000 fu pubblicato “Comme on a dit” – sempre prodotto dalla premiata ditta Gano & Ritchie – le aspettative erano altissime, la possibilità di deluderle altrettanto grande come sempre accade in casi analoghi, quando una band sia chiamata a bissare un successo ritenuto irripetibile. E questi quattro piccoli geni, seguendo il principio che segnerà tutta la loro carriera (gruppo, side-project e lavori solisti rigorosamente compresi), decisero di rimescolare le carte e di ricostruire da zero un nuovo capitolo della storia. Cancellarono in un solo colpo tutto quel baccano arioso e brillante che li aveva resi celebri (ne resta unica traccia nel minuto e mezzo di “D’amour en amour”, velocissima, messa lì quasi ad irridere, ma rispettosamente) in nome di un rock elettrico ed oscuro che conservava l’anima folk ma ne perdeva del tutto la forma. Il cambio di direzione fu brusco e spiazzante, l’album vendette sì e no un quarto rispetto al debutto, ma le settecentomila copie furono comunque un risultato egregio e fornirono la prova che il disco era un gran disco: difficilmente avrebbe potuto vendere così tanto – vista la netta cesura col recente passato – se non si fosse rivelato lavoro di spessore notevole. Incredibile la distanza artistica – non lo spessore, attenzione - che separa “Comme on a dit” da “Louise Attaque”, incredibile la tetra compattezza che unisce le tredici tracce avvolgendole in un manto nero come la copertina che le presenta e le introduce: dal sole alla notte, buio che inghiotte un arcobaleno, cuore di tenebra triste e malefico. L’apertura mette subito in chiaro le cose, “Qu'est ce qui nous tente?” è una rasoiata che Gaetan Roussel canta in un registro quasi strozzato, dolente, placandosi in un ritornello melodioso sùbito ricacciato indietro, preludio alla bordata di “Tu dis rien” con la sua cadenza martellante straziata dal violino del Maestro Arnaud. Il tono è fosco, il suono pieno e riverberante, il testo gronda di un sofferto esistenzialismo lontano anch’esso dai bozzetti naif degli esordi. Il lento dramma ovattato di “Sans filet” termina sospeso tra colpi sinistri di grancassa e riecheggiare cupo di pianoforte, prima della nuova deflagrazione scomposta di “Tout passe”, nevrotica e rabbiosa, e dell’ennesimo cambio di direzione che sta tutto nella ballata indolente de “L’intranquillitè”, poche strofe biascicate su un’amicizia perduta in un grigiore pigro d’autunno. Nessun brano ricalca gli altri, non ci sono doppioni, somiglianze, rimandi: strutturalmente non ci sono due canzoni nemmeno lontanamente simili, emotivamente l’album è un’ottovolante che alterna euforia (poca) e tristesse (molta) dispensando intuizioni repentine che impediscono ogni previsione su come suonerà il prossimo pezzo. E non a caso arriva la title-track, una strana ballata veloce su una cadenza da folk irlandese, quasi un pezzo bandistico che stende una storia svogliata di crisi coniugale prima di andare alla deriva in tre minuti strumentali tra una fisarmonica e uno scacciapensieri. “Pour un oui, pour un non” – che fu estratta come singolo – sfila via rapida prima di aprire la strada al gran finale, cinque canzoni nelle quali nulla va come dovrebbe o potrebbe andare. “Faut se le dire” è allora un piccolo gioiello di sperimentazione, due minuti e mezzo nei quali accade l’imponderabile, tra un drumming jazzato impazzito, continui stop-and-go mascherati e distorsioni assortite di chitarra e violino, fino all’impennata conclusiva che lascia strada al capolavoro de “La plume”: ritmo in controtempo, basso che entra a metà battuta, violino a disegnare la frase portante e la voce questa volta confidenziale di Roussel a narrare una storia che può essere d’amore, di affetto paterno, di fratellanza, di qualsiasi cosa. Dopo il racconto delirante e sinistro di “Justement” (che parla di un omicidio, tanto per gradire) arrivano gli otto minuti de “La ballade de basse”, ennesima riprova della rara capacità del quartetto di mantenere alto l’interesse variando e spiazzando continuamente: due brevi strofe cantate in un registro sommesso e malinconico cedono il posto a cinque minuti di jam elettrica su una cadenza lenta e ossessiva, in un crescendo vorticoso la cui saturazione si placa nuovamente nel finale, tornato morbido e suadente. Resta un’ultima oasi alla quale abbeverarsi, e di nuovo si butta all’aria tutto: su un soffice battito percussivo di stampo afro la nenia fragile di “Du nord au sud” giunge inaspettata col suo ritornello in spagnolo, tenue come un sussurro, carezzevole come il gesto lento, sincero ed amorevole di una mamma che ti rimbocca le coperte e ti accompagna in un sonno placido in una notte stellata, finalmente rasserenatasi almeno per un po’. (Manuel Maverna)