WOMEN "Public strain"
(2010 )
Gli Women sono un giovane quartetto – uno dei membri è purtroppo recentemente scomparso - di origini canadesi con due soli album all’attivo. Intelligenti autori di una musica sghemba, sbilenca e difficilmente classificabile nonostante influenze e rimandi più o meno espliciti, riescono nell’intento di miscelare elementi mutuati da sottogeneri ascrivibili al mare magnum dell’indie-rock partorendo un ibrido che non coincide nè con la somma delle parti nè con una corrente facilmente individuabile tra le altre. La loro operazione è meramente artistica, una sorta di anacronistica retro-avanguardia che recupera suoni e linguaggi già abusati sublimandoli in un idioma nuovo, sintesi apprezzabile e colta di post-rock, shoegaze, proto-psichedelia, space-rock, ambient-noise e così via in una nebulosa di fremiti e rumori mai disturbanti, ma sempre in qualche modo ingentiliti e smorzati dalla pennellata di art-rock che li ammanta e li unisce. E’ sufficiente l’opener “Can’t you see” per mettere in chiaro le cose: il canto filtrato di Patrick Flegel procede per conto proprio, fuori tonalità, fuori sincronia, come stesse intonando – anzi, stonando apposta – un’altra canzone; nel frattempo un sottofondo quasi ambientale attraversato da disarmonie, rumori assortiti e dilatazioni avulse naufraga in un minuto di nulla, accompagnato al suicidio da un basso che pulsa monocorde in lontananza, dettando solitario un ritmo che non serve. E’ il preludio al tempo dispari di “Heat Distraction” che procede tra scordature albiniane e collisioni varie tra chitarra e basso prima di aprire la strada a “Narrow With the Hall”, praticamente i My Bloody Valentine in acido che imitano i Byrds che rifanno i Beatles; tra riverberi, scampanellii, feedback ed altre amenità assortite fanno capolino accenni di canzoni definibili come tali (“Penal Colony”), con la ritmica sempre relegata ad un ruolo da comprimaria, ma in realtà coinvolta insieme agli altri strumenti nel crollo delle fondamenta, come se tutto sprofondasse da qualche parte, tra la nebbia. Fra richiami ai Flying Saucer Attack (lo strumentale “Bells”) e cadenze sospese in un magma sonoro indistinto (“Untogether” minaccia di deflagrare, ma si trattiene spasmodica), la trance intermittente à la June of ‘44 di “China steps” insiste su un ubriacante controtempo e sulla sincope tra le due chitarre, prima di collassare – in modo quasi piacevole – nell’ennesimo buco nero, mentre “Drag open” ha addirittura un riff, seppure completamente scordato e dissonante. Il brano caracolla gracchiante e indefinito ad un passo dalla “The living end” dei Jesus & Mary Chain (il marasma nasconde tutto, compresa una supposta linea melodica che probabilmente nemmeno c’è), placandosi in un inatteso rallentamento a se stante, avviluppato attorno ad un unico accordo ed accostabile per atmosfera ed intento alla “Duk Koo Kim” di Kozelek. Rispetto ai Jesus & Mary Chain mancano sia il taglio morbosamente maniacale che il furore omicida, sia – soprattutto – la sovrapposizione del rumore alle scarne nenie che costituivano gran parte del repertorio dei fratelli Reid: negli Women, senza questa costruzione astratta (più affine ai My Bloody Valentine), le canzoni neppure esisterebbero: l’impressione è che i brani, privati della patina di trucchi ed orpelli che li caratterizzano e danno loro forma, risulterebbero tanto impalpabili ed inconsistenti da dissolversi, quasi inesistenti. Solo i tre brani conclusivi concedono qualcosa alla platea, sebbene rifuggano da qualsiasi spettacolarizzazione: “Locust Valley” è una pop-song quasi lineare sullo stile (sic!) dei Police di “Ghost in the machine”, sebbene ruoti attorno ad un semplice abbozzo di ritornello monocorde e ad un jingle-jangle chitarristico disturbante; “Venice lockjaw” regala in tre minuti scarsi una parvenza di gradevole romanticismo sempre sporcato da detriti vari, mentre la lunga, conclusiva “Eyesore” satura l’unica trama lineare del disco con un crescendo intasato à la Interpol. Lavoro ambiguo e complesso, encomiabile sotto il profilo artistico, eccellente per il mio personale gusto, orribile se considerato da un punto di vista strettamente musicale. (Manuel Maverna)