UMBERTO PALAZZO E IL SANTO NIENTE "La vita è facile"
(1995 )
Nella musica ci sono idee oscure e menti oscure, spettri che aleggiano irrequieti e sinistri sopra le nostre teste e dentro le nostre teste, tetre figure la cui percezione è già di per sé sufficiente a generare una sorta di sottile inquietudine. Nella musica esiste l’intrattenimento, ma anche il disagio, l’amore cantato, ma anche i detriti che le svolte della vita e le contorsioni della mente lasciano filtrare e non riescono ad eliminare del tutto. Umberto Palazzo si è sempre cibato di detriti, facendone la propria dimensione e ragione di vita (artistica); dopo aver militato nella prima formazione dei Massimo Volume di Mimì Clementi, preferì proseguire seguendo un percorso differente, paradossalmente più musicale e meno sperimentale, qualcosa che si avvicinasse maggiormente alla forma-canzone tradizionale e lasciasse a Clementi la libertà assoluta di giocare con la sua ineguagliata ed ineguagliabile invenzione. Palazzo sceglie invece smaccatamente come modello il noise-rock di matrice statunitense ed imbastisce un disco aspro e fastidioso, fatto di colate di feedback acido e di riff cingolati: il sound ricorda quello sgraziato ed opprimente degli Helmet di Page Hamilton, ma l’incedere è più lineare, il gracchiante, martellante stridore chitarristico incasellato in una ritmica più regolare. Qualche timido accenno di melodia fa capolino in questo frastuono controllato, ma viene subito dilaniato ed ingoiato dalla successiva deflagrazione elettrica: è il caso dell’iniziale “Cuore di puttana (hardcore)” dove, tra clangori metallici ed una frenesia a stento trattenuta, trova spazio un abbozzo di ritornello quasi cantabile. Ma è solo il preludio alla catastrofe, perchè già nei due brani successivi (come pure nella singhiozzante “Finalmente sterile”) i chorus divengono volutamente insostenibili, preda di un canto monocorde e di progressioni atonali, con Palazzo che declama più che cantare, un Giovanni Lindo Ferretti più nichilista, meno enfatico e più disilluso. In “Elvira” si fa strada di nuovo un tentativo di refrain che suona quasi come una debolezza passeggera, mentre altrove (ad esempio ne “Il pappone”) la band prova ad elaborare una struttura più complessa, unendo due diverse trame in una mini-suite, o replica lo stile di Clementi nei due validi recitativi di “L’aborigeno” (su una cadenza percussiva rimbombante e ossessiva sventrata da una continua modulazione del feedback) e “Storia breve”, inciampando nell’ingenuo punkettone slabbrato di “Andarsene via”, nobilitato soltanto dalla scomposta reiterazione del finale. Cala il sipario sul rallentamento malato di “Fata morfina”, con l’ennesimo testo intriso di ogni possibile malessere esistenziale, parole sempre venate di sporcizia, sesso sbagliato, frustrazione, stilettate che narrano incessantemente di sconfitte, meschinità e personaggi abbruttiti, una fiera di negatività, bestiario vivido di esistenze al limite. Disco ostico, l’antitesi della lievità suggerita sarcasticamente dal suo stesso titolo. (Manuel Maverna)