LEONARD COHEN  "Songs of Leonard Cohen"
   (1967 )

Poeta ancor prima che cantautore e strumentista, Leonard Cohen ha attraversato l'ultimo mezzo secolo di musica con il piglio fiero e dimesso dei grandi artisti, sempre rifuggendo le luci della ribalta ed i clamori dello star system, mondo effimero e caduco al quale senza fatica avrebbe potuto accedere se soltanto lo avesse desiderato.

Invece questo gentile canadese di origini ebraiche preferì restare in disparte veicolando la sua poesia sulle ali di composizioni esili e confidenziali, ricche di una sottile malinconia e di un afflato intimista perfetto per essere interpretato alla maniera degli chansonnieres francesi: sorprendenti suonano ancor oggi la freschezza e l’attualità di queste dieci composizioni, garbate confessioni in punta di chitarra appena arricchite da arrangiamenti tanto essenziali quanto funzionali, madrigali intimisti che lo differenziano dal pungente misticismo visionario e dall’invettiva populista di Dylan accostandolo più propriamente ad un George Brassens o – meglio ancora, mancando di sarcasmo e brillando altresì per dimensione esistenzialista, come nella riflessiva “Stories of the street” - ad un Jacques Brel.

Debutto folgorante che raccoglie alcune fra le sue tracce più celebri (“Suzanne”, “Sisters of mercy”, “So long, Marianne”), “Songs of Leonard Cohen” sciorina tutta la pacata maestria di un artista troppo grande e profondo per scendere a patti con il mercato, impegnato a dipanare la propria poetica noncurante di mode, correnti e costumi imperanti. Figura sfuggente ed elitaria, Cohen incastra senza apparente sforzo armonie e ritornelli esemplari (il quasi doo-wop di “So long, Marianne” lieve come una piuma), affidandosi nei testi ad un erotismo più che accennato, ma mai lascivo (“Winter lady”) e ad una religiosità quasi astratta nella sua aconfessionalità (il complesso mosaico concettuale di “Master song” ne è fulgido esempio), a costruzioni liriche che sono in primis poesie e solo in un secondo tempo divengono canzoni: l’arpeggio veloce ed insistito della vibrante “The stranger song” - lo stesso stile che caratterizzerà “Amico fragile” del discepolo De Andrè – si erge allora a degno supporto per un racconto capace di affascinare ed inquietare al contempo.

La grazia di queste trame tanto impalpabili quanto intense è accresciuta dal ricorrere di figure femminili, reali o iconiche, siano esse interlocutrici, muse, redentrici (“Sisters of mercy”) o martiri (“Suzanne”), sempre e comunque ingentilite da un afflato che è sia romanticismo sia sublimazione della femminilità stessa. La scrittura non è sferzante come quella di Dylan, ma riesce ad essere a suo modo sia toccante (“Hey, there’s no way to say goodbye”, con l’onnipresente coro di voci femminili in secondo piano), sia inquietante (il racconto surreale di “Teachers”), offrendosi ermetica ad interpretazioni mai univoche (“One of us cannot be wrong”).

Disco di limpida, luminosa, imperiosa bellezza, che la patina del tempo non riesce neppure a scalfire, raccolta di momenti che trasudano una incessante, meditata riflessività ed una ispirazione mantenuta a livelli impensabili per qualsiasi comune autore. (Manuel Maverna)