LITFIBA  "Litfiba 3"
   (1988 )

C’erano una volta i Litfiba. Superato l’esuberante, acerbo e giovanile afflato che animava la bizzarra commistione tra anthem barricaderi e trasognata poesia in “Desaparecido”, svanita in parte la verve squisitamente artistica sublimata nell’inarrivabile ed ineguagliabile perfezione di “17 re”, i Litfiba rilasciarono “3”, lavoro in bilico tra un passato scintillante ed un futuro mediocre votato ad un rock di facciata piuttosto insipido e poco ispirato. “3” è l’album eterogeneo e contraddittorio che segna l’esordio della inevitabile fase decadente, disco ancora da annoverare senza dubbio alcuno tra i migliori della band fiorentina, ma già recante in sè i germi della deriva canzonettara che portò all’abbandono di Gianni Maroccolo (l’ala intellettuale della band) ed al varo di una discografia di caratura ben più ridotta. Trainato dall’interpretazione vocale e teatrale di un Pelù sempre istrionico on stage, legato al suo personaggio ambiguo tra il macho ed il gitano, e forti di una vis polemica che bersaglia molti aspetti deteriori di un sistema sociale sovente messo sotto accusa dai testi del gruppo, “3” alterna brani di intensa profondità ad episodi meno riusciti che preconizzano il corso di là da venire. Ad oltre vent’anni di distanza, e nonostante la remasterizzazione, il sound paga dazio ad una produzione non irresistibile che schiaccia le chitarre e lascia scollate le tastiere, ma si tratta di elementi che non sottraggono alle canzoni nemmeno un’oncia della loro intima bellezza. Accanto ad episodi meno riusciti e decisamente superficiali (“Amigo”, “Corri” e “Cuore di vetro” sono solo ritmo, groove e poco altro) si stagliano prepotentemente su uno sfondo fosco e pessimista l’invettiva anticlericale di “Santiago” e la cadenzata reprimenda ecologista di “Peste”, la soffice cavalcata in crescendo di “Louisiana” (sulla pena di morte) e la percussiva, oscura e soffocante tetraggine dell’antiabortista “Bambino”. C’è molta psichedelia, dalle già citate “Bambino” e “Peste” alla sinistra “Ci sei solo tu” (sui manicomi), e ci sono soprattutto due dei singalong più contagiosi della loro intera produzione: la latineggiante “Paname”, che gioca con una fisarmonica meticcia ed un chorus in francese, e la sparata western di “Tex”, canzone che contribuì – nel bene e nel male – ad edificare immagine e sonorità dei Litfiba minori, quelli che negli anni successivi avrebbero creato tanti rimpianti e spinto chissà quanti fan a rituffarsi fino alla nausea nella trilogia che rese grande la band nella seconda metà degli anni ottanta. (Manuel Maverna)