OASIS "(What's the story) Morning glory?"
(1995 )
In particolari stati di grazia ogni cosa, in musica e non, sembra rivestirsi di una naturalezza e di una efficacia che di rado si ripetono con pari intensità – artistica ed emotiva – nelle opere che seguono un capolavoro. A Noel Gallagher & soci, volti e nomi la cui notorietà è a tal punto sterminata da non meritare chiose di alcun tipo, l’operazione è riuscita con successo almeno tre volte nella vita, tante quanti gli album dei loro Oasis che possono essere considerati significativi. Estremizzando gli insegnamenti impartiti in tempi remoti dagli antesignani Kinks e Byrds, precursori – e veri artefici - del tanto sbandierato, decantato e vituperato brit-pop, i cinque discolacci vergano un’opera a tal punto infarcita di episodi legittimamente considerati preminenti nel loro repertorio da assomigliare quasi ad un best of. Le prerogative dell’Oasis-sound sfilano in serratissima successione, e ciascuna di esse viene replicata con la furba sagacia e la consapevole scaltrezza dei mestieranti in dieci tracce che assorbono e restituiscono decenni di impasti pop albionici e di evidentissime influenze stampate nel dna. Tuttavia, nel processo di rilettura i cinque personalizzano la materia rimasticata aggiungendo due elementi fondamentali e distintivi: il primo è lo stile vocale sguaiato di Liam Gallagher, frontman suo malgrado, icona fashion di bell’aspetto, un potenziale dandy dall’aria volutamente blasè e dall’immutabile espressione scocciata, riottoso, irascibile, litigioso e supponente, in una parola la sublimazione (o la decadenza) del britannico-medio; il secondo è la tendenza (tutta della mente compositiva Noel Gallagher) a saturare il suono di amabili ed accattivanti brani pop grazie ad un uso lancinante del feedback chitarristico. Attenzione: non si tratta della classica operazione figlia del rumorismo colto di matrice Velvet Underground o dello stupro canzonettaro ordito ed attuato dai Jesus & Mary Chain, bensì di un potenziamento delle melodie ottenuto grazie al sostegno della pienezza del sound. In altre parole, la valanga di feedback che avvolge (senza sommergerle, ed in ciò sta la differenza) l’opener “Hello”, il vortice riverberante di “Hey now” o la cadenza martellante di “Morning glory” sembra arricchire le composizioni anzichè frustrarle. L’operazione si ripete nel battito monocorde di “Roll with it”, nella sfavillante coda di “Some might say” ed in più punti nei sette pretenziosi minuti di “Champagne supernova”, costruita come un ottovolante tra oasi di quiete ed impennate veementi. Ma quando il frastuono si dirada, fanno capolino nella loro cristallina purezza almeno due capolavori, piazzati uno dopo l’altro con nonchalance quasi irritante: prima i quattro accordi che compongono il giro – elementare, ma geniale – della celeberrima “Wonderwall”, indi la toccante melodia pianistica della beatlesiana “Don’t look back in anger”, un compendio di inglesità in quattro minuti di palpabile bellezza. Poco conta che un paio di brani (le non indispensabili, benchè gradevoli, “Cast no shadow” e “She’s electric”) finiscano sottotono; in cotanta grandeur c’è spazio anche per qualche episodio minore, che non sottrae a “What’s the story” la meritata qualifica di disco sontuoso, in grado di regalare momenti di perfezione stilistica pressochè assoluta, prescindendo da qualche perdonabile peccatuccio di presunzione. (Manuel Maverna)