TOM WAITS  "Rain dogs"
   (1985 )

Al tempo stesso istituzione, pioniere, stregone e imbonitore, genio mascherato da buffone di corte, eminenza grigia sotto le mentite spoglie di giullare, l’istrionico performer losalngelino Tom Waits ha attraversato gli ultimi quarant’anni di arte contemporanea imprimendo un marchio indelebile sulla musica mondiale, impastando ed imbastardendo tradizione colta e popolare in una miscela tanto unica quanto esplosiva, nonchè immediatamente distinguibile per sonorità, espressività e spessore. Il riferimento basilare per definire almeno in parte il mare magnum nel quale Waits nuota a proprio agio da una vita è probabilmente il blues, quello ancestrale dei neri, ma anche tutta una ricca e nutrita rielaborazione dei vari generi e sottogeneri della cultura popolare, dalle fanfare delle marching-band ai ballabili da dance-hall, dagli sketch teatrali allo swing degli anni cinquanta, coniugando surrealismo e noir grazie al filo conduttore di una voce inconfondibilmente sgraziata, ad oggi quanto di più lontano esista dal bel canto e dalla melodiosità. Ad oltre un decennio dall’esordio acerbo di “Closing time”, Waits partorisce nel 1985 uno dei suoi capolavori, questo “Rain dogs” che funge da compendio di arte varia, una sorta di articolato baccanale nel quale i rigurgiti belluini ed ineleganti di Tom raggiungono vette di inusitato espressionismo ad un passo dall’avanguardia. Le diciannove tracce dell’album rappresentano altrettanti esperimenti sotto il profilo degli arrangiamenti, nessuna (o quasi) di esse sviluppandosi in modo tradizionale: ciascun brano include qualche elemento (un suono, uno strumento, un ritmo) che ne sfigura la stesura originaria deformandone i contorni e sottraendolo in tal modo all’andamento convenzionale che avrebbe altrimenti avuto; il circo sonoro allestito da Waits e soci è capace di inscenare vignette di ordinaria mostruosità, love-story distorte, elegie alcooliche, pièce urbane, tutte offerte all’ascoltatore in modo affatto convenzionale, se è vero – ad esempio – che con poche eccezioni (il ballabile slow di “Blind love”, il rock quasi mainstream della leggera “Downtown train”, la mielosa “Time” che ricorda un collage di “Can’t help falling in love” del King e di “Que sera” di Jose Feliciano) si fatica a trovare in tutto il disco una batteria che segni il tempo con linearità, o una chitarra che proceda per giri di accordi. Il solo limite di un album affascinante ed ammaliante è rappresentato forse dalla durata dei brani, che sono spesso corti al punto da suggerire un mancato sviluppo, come se la canzone venisse troncata prima di trovare ulteriori aperture: tutto è condensato nel poco spazio destinato ad accogliere il pezzo, che viene esaltato ed ucciso in un lampo (il soffuso, sordido battito tribale di “Clap hands”, l’agghiacciante gracchiare di “Cemetery polka” col suo altrettanto mostruoso bestiario da ospizio, la struggente “Diamonds and gold”, lo sbilenco boogie ubriaco di “Union square”, ognuna intorno ai due minuti e mezzo), prima di vedersi consacrato allo status di classico che meriterebbe. Ma ogni pezzo è capace comunque di regalare dettagli inattesi ed imprevedibili, dalla fisarmonica bohemienne che apre la title-track prima di lasciarla vagare su un tappeto di percussioni, tromba e piatti, al funerale bandistico di “Anywhere I lay my head” che chiude su una dimessa processione da New Orleans; dalla marcetta swing dissonante dell’opener “Singapore”, con contrappunto di vibrafono, al veemente street blues di “Gun street girl”, con slide-guitar, contrabbasso, bongo e un pezzo di metallo percosso (più o meno quanto accade analogamente anche in “Big black Mariah”); dalla meravigliosa ballata dixie in minore per tromba e pianoforte di “Tango till they’re sore” al passo mariachi di “Jockey full of bourbon”, che indugia su un flamenco sghembo, “Rain dogs” è una profusione di idee confezionate con la maestria inarrivabile di un artista che ha segnato un percorso musicale elevato, scintillante, di rara intensità. (Manuel Maverna)