UMBERTO PALAZZO  "Canzoni della notte e della controra"
   (2011 )

L’art brut di Umberto Palazzo si colloca, per sua espressa scelta, agli antipodi della buona musica, in aperta antitesi con la piacevolezza che l’ascolto della stessa suggerisce. Membro fondatore degli inarrivabili Massimo Volume (al fianco di Mimì Clementi), che abbandonò prima della registrazione del debutto “Stanze”, diede vita al Santo Niente, band votata ad una personale elaborazione del verbo noise in ambito/idioma italico. Forte di un approccio intimamente violento e negativo, veicolato da canzoni ruvide, acide e dissonanti che giungevano talvolta a lambire una monocorde, fastidiosa atonalità, con tono sgraziato e disilluso Palazzo dispensò nell’arco di tre album di ardua fruibilità un’arte oscura impregnata di una tanto inquietante quanto compressa brutalità, sulla falsariga dell’operazione condotta oltreoceano – per fare un nome - dagli Helmet di Page Hamilton. Deposte le armi e la furia del recente passato, l’ormai maturo quarantasettenne Umberto si mette in proprio e si ripresenta sulle scene a sei anni di distanza da “Il fiore dell’agave” disfandosi temporaneamente del Santo Niente e regalando un disco che sorprende sia per la veste intima e confidenziale (i brani sono scritti, arrangiati e suonati in quasi perfetta solitudine), sia per lo spessore delle composizioni, sia per l’inattesa maturità artistica che trasuda da queste nove tracce intense e palpitanti. E’ un album raccolto che gioca perfido a creare uno scenario di sottile perversione, permeato da un’atmosfera sinistra e lugubre che aleggia persistente come una coltre caligginosa su canzoni spettrali e livide. Il passo lento e riflessivo dei brani favorisce la lievitazione costante di un pathos infido che diviene quasi opprimente nella sua insinuante lascivia, con Palazzo a tratti magistrale nell’allestimento di una mascherata che affascina nella sua morbosa maniacalità. Si odono ovunque – mutatis mutandis - echi distorti ma evidenti di modelli inconfondibili, dai sacri Tenco e De Andrè ai più terreni Capossela e La Crus, in un’opera che dista anni luce dal Santo Niente in un tentativo ben concepito ed altrettanto sontuosamente compiuto di sondare territori sin qui ancora vergini ed inesplorati per un Palazzo che sembra ri-debuttare alle soglie della mezza età. Il passato risorge unicamente nella autocelebrazione di “Aloha”, brano che chiudeva “Il fiore dell’agave” e che viene qui riproposto in una versione fedele all’originale, mentre per il resto si assiste al dominio incontrastato di un fosco cuore di tenebra in tonalità minore; immagini stravolte si susseguono in un caleidoscopio demoniaco, che restituisce l’erotismo ambiguo delle figure intrecciate nel sordido bozzetto di “Terzetto nella nebbia”, o la sorda cadenza ossessiva che ammanta la scarna nenia omicida di “La luce cinerea dei led”, la mirabile evocazione di De Chirico in “Metafisica” o il fantasma tossico disteso immobile nel letto-sudario de “La controra”. E’ la casa degli spettri, un non-luogo dai contorni indistinti che potrebbe appartenere al sogno o ad una realtà drogata, quella che agita i versi visionari di “Acchiappasogni” (“Angelo della mia perversione/protettrice della mia ambiguità/santa dei bui anfratti e delle tane/madonna dei pensieri in fiamme”), lontanissimo dalle volte celesti, più facilmente ad un passo dal purgatorio e dal regno delle ombre. (Manuel Maverna)