PINK FLOYD "The final cut"
(1983 )
Di fatto lavoro solista di un dispotico Roger Waters, reo sia dell’epurazione di Richard Wright, sia della marginalizzazione della coppia Mason-Gilmour, entrambi ridotti per l’occasione a meri esecutori e comprimari, “The final cut” rappresenta davvero – come il suo titolo sibillinamente suggerisce - una cesura all’interno della luminosa parabola Pink Floyd, un ponte minato tra un passato tanto scintillante quanto irripetibilmente ingombrante (venivano da “The wall”), una parentesi considerata avulsa sia dal repertorio solista di Waters sia dalla discografia dei Floyd ante e post Waters stesso. Per queste molteplici cause, “The final cut” è album ritenuto da pubblico e critica come episodio minore difficilmente inquadrabile, un’opera a tema incentrata sulla guerra latu sensu che prende le mosse dal conflitto delle Falkland per giungere ad una esplicita condanna della politica estera di Margaret Thatcher. Tutti i brani portano la firma di Waters, con Gilmour e Mason relegati al ruolo residuale di backing-band, peraltro impiegati a singhiozzo vista l’impostazione generale – musicalmente parlando – del disco: con poche, isolate eccezioni (l’esitante “The hero’s return” e la bordata mid-tempo di “Not now John”, peraltro l’unica traccia nella quale sia dato udire la voce di Gilmour) il tono dell’album è pacato e dimesso, i brani sono piuttosto brevi, talvolta quasi solo acustici (“Two suns in the sunset”), talora ridotti a scarne ballate dagli accenti sommessi (“Southampton dock”) o trascendenti ( “The gunner’s dream”). Sebbene si abbia la sensazione ineludibile di stare ascoltando la stessa canzone dal principio alla fine, “The final cut” rimane album non privo di un suo profondo fascino, dotato di una malìa sottile che pervade ciascuna delle dodici tracce ammantandole di una patina al contempo melanconica e nascostamente elettrizzante; in modo subdolo, il disco accumula tensione senza mai rilasciarla, affidando alle liriche il compito di disegnare e definire inquietanti, apocalittici scenari sulla scorta di musiche suadenti ed ingannevoli nel loro incedere falsamente carezzevole. Il mood resta sempre piuttosto incupito, addirittura opprimente, ma l’ego sconfinato di Waters riesce a non soffocarsi da sè regalando comunque alcune perle di pregevole fattura. L’apporto di Gilmour è misurato, limitato a poche impennate solistiche mai invadenti, quasi il buon David fosse stato cortesemente invitato a tenersi in disparte: ogni assolo è funzionale e non ridondante, ma non per questo perde in bellezza ed incisività (mirabili quelli di “The Fletcher Memorial Home” e di “The final cut”), levigando la superficie di brani già di per sè languidamente avviluppati intorno a canovacci armonici poco più che essenziali. Disco scarsamente considerato, che personalmente ho sempre amato più di molti altri lavori dei Floyd, ma che conserva un proprio esile, irresistibile fascino ed una morbida, gentile, fluida continuità. (Manuel Maverna)