NICK DRAKE "Pink moon"
(1972 )
Ciò che più mi colpisce di “Pink moon”, terzo ed ultimo capitolo della breve, intensa e sbilenca parabola artistica ed umana di Nick Drake, è la rarefazione delle canzoni, che abbandonano la struttura portante e scompaiono implodendo su sé stesse, come rinunciando a svilupparsi.
Sono schizzi minimali, bozzetti appena accennati, tenui vagiti, brani che sembrano suicidarsi appena nati, tremanti ed incerti, gusci di noce alla deriva tra i marosi dell’oceano. “Pink moon” suona come se a Drake fossero mancate le forze e la sua resistenza alla fatica di vivere si fosse affievolita come il lumicino di una candela.
Scompare l’orchestrazione, allontanata dalla scena mentre un uomo solo resta sulla ribalta con la sua chitarra ed un sordo, profondo malessere in una penombra greve; non c’è più malinconia, a prevalere è invece un senso di solitaria rassegnazione che diviene elemento totalizzante e fortemente caratterizzante.
Il disco è spoglio, artigianale, la maturità dell’artista regredita ad espressività minimalista, nulla più rimasto a germogliare su un albero scheletrito; i brani non sbocciano quasi mai, insistendo su un incedere monocorde (“Free ride”, “Parasite”) che rende opprimenti le tracce, ripiegate su reiterazioni sfibranti che giungono a sfiorare l’atonalità (“Know”, “Which will”), fastidiose nella loro ostentata nullità.
L’operazione cui Drake sembra tendere è la negazione della forma-canzone, tenuta in vita solo in pochi episodi (la title-track, che tuttavia muore prima di dire qualcosa, “Place to be” e “Things behind the sun”), peraltro con fatica estenuante; otto brani su undici restano sotto i tre minuti, alcuni non arrivano a due (lo strumentale “Horn”, le scordature di “Harvest breed”), in un non-disco di non-canzoni.
Ventotto minuti inconclusi, quasi un’incompiuta, una raccolta di idee che rimangono in gran parte tentativi poco convinti e poco convincenti di comunicare con qualcuno, come se la volontà di gridare fosse uccisa dall’afonìa; ventotto minuti per una resa incondizionata, umana prima che artistica, l’esile canto del cigno di un’anima fragile, la flebile confessione finale di un uomo eternamente confuso.
(Manuel Maverna)