TALKING HEADS  "True stories"
   (1986 )

La gloriosa carriera dei Talking Heads di David Byrne, intellettuale partorito dalla New York cerebrale e avanguardistica dei seventies, fu segnata da un crescendo di fama che ne fece delle icone di una new-wave riletta alla luce di alcune geniali intuizioni. Lontano dai fasti degli esordi, ad anni luce da quell’ispirato classismo artistico che li portò a disegnare nuove traiettorie nel cielo della musica colta, “Trues stories” è poco più di un disco di transizione, un’amena raccolta di ballate disimpegnate sostanzialmente prive di buona parte degli elementi che avevano decretato la specificità della band e ne avevano sancito la popolarità. In rapporto di filiazione diretta col film scritto e diretto dallo stesso Byrne, per il quale i Talking Heads fornirono – ovviamente – il soundtrack, “True stories” marca il penultimo capitolo della saga Talking Heads all’insegna di un pop dagli accenti rurali (in linea con l’ambientazione del film) solo marginalmente drogato dai trucchetti sonori di Byrne & soci. Così accade che la sperimentazione da sempre condotta sulla parte ritmica faccia capolino solo sporadicamente (ad esempio nella percussiva, quasi tribale cadenza afro di “Papa Legba” o nelle esitazioni di “Hey now”), mentre a prevalere sono motivetti orecchiabili senza profondità, limitati – una volta tanto – al semplice appeal di facciata. Lungi dall’essere memorabile, l’album è tutt’altro che disprezzabile, forte di alcune impennate contagiose (il divertissment boogie di “Puzzlin’ evidence”, che sarebbe piaciuto alla chitarra di Mark Knopfler) e di qualche zampata da maestro (la melodia morbida di “Dream operator” o l’inciso in levare di “Radio head”), ma talvolta vittima di inopinate cadute di tono e di stile (“People like us” è un’insipida ballata mid-tempo e “Wild wild life” ricorda i Cars più mainstream e Fm-oriented). Il David Byrne che verga “True stories” in solitaria è rilassato e soddisfatto, un simpatico burlone stanco di innovare che dopo cotanto spremer di meningi si trastulla col giocattolo da lui stesso brevettato, realizzando un disco poco più che gradevole, del tutto superfluo per accostarsi all’arzigogolata complessità di una band con pochi eguali negli ultimi trent’anni – ed oltre – di musica. (Manuel Maverna)