AMOS LEE  "Mission bell"
   (2011 )

Amos Lee – nome d’arte di Ryan Anthony Massaro - è un talentuoso songwriter di Philadelphia la cui fama è probabilmente destinata ad accrescersi nel tempo. Scoperto e lanciato nello star-system dall’entourage di Norah Jones, il trentatreenne crooner della Pennsylvania ha rilasciato nel 2011 il suo quarto album, questo “Mission bell” che ha debuttato addirittura al numero uno delle classifiche americane. Forte di un timbro vocale perfetto per interpretare il genere prescelto – una miscela molto roots costituita da parecchio soul e da suggestioni folkeggianti di lieve sapore country – il valente Amos si avvale addirittura della produzione di Joey Burns dei Calexico, che si scomoda per cercare di arricchire l’album con qualche sapiente tocco latino e con sporadici artifizi artistici sparsi fra le dodici tracce del lavoro. Intendiamoci, il disco è abbastanza piacevole, sebbene indulga eccessivamente nell’autocelebrazione e nello sfoggio accademico di doti incontestabili; ma – ahimè – il ragazzo pare pasticciare un po’ troppo coi generi senza prendere con decisione le parti dell’uno o dell’altro, scrivendo talvolta con scarsa convinzione, persuaso che basti il groove a reggere le sorti di brani tutt’altro che irresistibili. E di episodi per nulla fondamentali – con il contorno altrettanto accessorio di numerosi ospiti - “Mission bell” è zeppo, dalle inutili, piatte e scontate “Flower” e “Stay with me” al tutt’altro che esaltante cameo di Lucinda Williams che si limita al compitino nella mielosa “Clear blue eyes”, dal molle soul manieristico di “Windows are rolled down” e “Learned a lot”, ove il buon Amos gigioneggia pigro in area Otis Redding, alla melensa ballata conclusiva di “Behind me now”. Miracolosamente, l’album riesce a traccheggiare appena sopra la soglia della sufficienza grazie a qualche zampata da maestro che al contempo inebria per la qualità sopraffina, ma irrita per la scoperta dimostrazione del disimpegno che affligge il resto dell’opera; alcuni episodi sono allora toccanti nel loro scintillante, caldo afflato romantico, dalla morbida apertura mariachi di “El camino” (non male anche la reprise dello stesso brano con la partecipazione di Willie Nelson) alla sfuggente “Violin”, proseguendo per il palpitante gospel di “Jesus” fino all’honky-tonk di “Cup of sorrow”. Nel mezzo, la bachata trasognata di “Hello again” potrebbe valere da sola l’intero disco, illuminando di autentico splendore il lavoro di un autore il cui potenziale – canzonette a parte – sembra essere enorme. (Manuel Maverna)