ALESSANDRO FIORI  "Questo dolce museo"
   (2012 )

Ciò che nobilita, ispessisce, struttura e connota questo piccolo, raccolto, intimo e falsamente rassicurante lavoro solista di Alessandro Fiori – storico membro fondatore, voce e chitarra dei meravigliosi Mariposa – è il suo complessivo, straniante suonare fuori posto. Disco che è come un conto che non torna, un soprammobile impercettibilmente spostato su una mensola, un mattone scostato in un muro, un particolare avulso in un panorama, un dettaglio mancante in un disegno, un fotogramma sottratto ad una sequenza, l’istantanea senza profondità del bimbo incompleto allusivamente ritratto in copertina. Le undici canzoni che lo compongono giungono ovattate, avvolte da un registro vocale sempre tenue e garbato che cela e disvela al bisogno tutte le infide trappole di cui il lavoro è disseminato; sono tranelli sovente affidati ad una poetica insolita che serpeggia sibillina fra le maglie di brani esili paradossalmente rigonfi di immagini tanto vividamente realistiche da rasentare talora una disturbante brutalità (raggelante “Tigre in strada” che chiude l’opera su un elementare giro di chitarra ed un lallare fanciullesco, disquisendo pacata di cadaveri e fosse comuni; disarmante la tragedia di “Bambina”, amplificata dalle dissonanze degli archi). “Scusami/se ti ho svegliata per vedere/un’alba del cazzo” è l’incipit di “Scusami”, brano di apertura di “Questo dolce museo”, album del 2012 dedicato all’amico Sandro Neri - scomparso a causa dell’alcolismo due anni prima ed esplicitamente ricordato nella fosca desolazione velvetiana del brano omonimo -, biglietto da visita a suo modo già indicativo di una scrittura obliquamente imprevedibile: 3 minuti e 16 secondi la canzone, poco più di un minuto per un testo snocciolato con amorevole dolcezza, il resto coda sospesa sul nulla a naufragare in una sfuggente ninna-nanna. I testi, cui è affidato il ruolo dominante, promettono immagini, suggeriscono storie, abbozzano senza definire, disegnando una frammentata cantilena sbilenca che procede per bruschi contrasti assurdamente invisibili ad occhio nudo; dall’armonia complessa di “Ti annunci piangendo” (in area Benvegnù) al commovente, nostalgico quadretto di famiglia di “Giornata d’inverno” (con un inciso che ricorda addirittura Gino Paoli) fino all’allettante tema d’archi à la Baustelle che avvolge la cadenza retrò de “Il vento”, Alessandro sembra giocare con i colori per il gusto di confonderli, sfumando la criptica drammaticità di “Mi hai amato soltanto” o plasmando ad arte la bachata contagiosa di “Il gusto di dormire in diagonale” (“Portami a fare una mostra personale/sul degrado ambientale delle spiagge del mio cuore/portami a fare una lastra pettorale/per verificare se ancora ci sei”) con una naturalezza che disarma ammaliando. Disco di traboccante intensità che rivela il proprio fulgore solo dopo ripetuti ascolti, frutto di un non comune talento immaginifico e di una sopraffina sensibilità umana e stilistica, “Questo dolce museo” offre uno scorcio affascinante del mondo – non solo interiore - di un artista poco noto, splendido nella sua ostentata, elitaria alterità. (Manuel Maverna)