MIKE OLDFIELD  "Tubular bells"
   (1973 )

Ci sono dischi che hanno fatto la storia. Come questo.

Siamo agli inizi dei ‘70s, con tutto quel movimento e voglia di inventare che passava a breve dal coraggio sperimentale all’incoscienza. Lui era un teenager con un po’ di esperienza attorno ai lavori della sorella Sally (passata anche da Sanremo, anni dopo) e con tanta voglia di suonare. Incontrò Richard Branson, che prima di diventare il multimiliardario ecc ecc conosciuto anche ai nostri giorni era un soggetto alla ricerca di argomenti per fare soldi.

Il demo di “Tubular bells”, ovviamente rifiutato da tanti altri, gli piacque al punto da renderlo base di partenza per la Virgin Records, con annessi e connessi: il coraggio c’era tutto, perché si trattava di 50’ strumentali, suonati quasi completamente da Oldfield, che partivano dalle sonorità tubulari iniziali – quelle diventate poi parte integrante di chiunque abbia voluto avvicinarsi al connubio musica/horror, anche perché “L’esorcista” ne prese dei frammenti nella sua colonna sonora: i Goblin e tutto il filone sanguinolento musicale dei ‘70s ci si inginocchiò – per poi girare attorno a decine di influenze sonore, in quel calderone che era il progressive dell’epoca.

Che qui, però, smussa le ambientazioni rock per entrare in criteri dal classico al jazz, dal folk ai virtuosismi (curiosa, a fine A-Side, la presentazione di tutti gli strumenti), rendendolo quindi qualcosa in cui è difficile perdere il filo, o semplicemente annoiarsi. Cosa che ci potrebbe stare, per chi non è esattamente avvezzo alla strumentalità nuda e cruda.

Disco che ha superato gli ostacoli degli anni, e che è poi diventato un drammatico cappio al collo di Oldfield, che nei decenni successivi non ha mai saputo, o voluto, realmente emanciparsi da un’opera che ha fatto storia, a partire dalla copertina, con la tubularità che sarebbe poi stata il suo simbolo pressochè unico. C’è chi vive di rendita grazie a canzonette di 3 minuti e tormentoni estivi: lui lo ha fatto con un lavoro strumentale di oltre 45 minuti, pochi possono dire la stessa cosa.

Ma non può mancare, “Tubular bells”, nelle case dei musicofili: e, soprattutto, che sia la versione originale, dato che tutte le riproposte (orchestrali, risuonate, remixate ecc), ne aumentano forse l’impatto sonoro, ma non certo le suggestioni di questa opera prima. (Enrico Faggiano)