MIKE OLDFIELD  "Light and shade"
   (2005 )

Persa di vista la condizione delle classifiche, e lasciato da parte il discorso sui concept-album strumentali, così come erano stati molti lavori dei ‘90s, “Light and Shade”, doppio cd del Michelino nostro, viaggia su binari di musica soft, quasi chill out nella versione “light”, appunto, per entrare poi in un ambito più movimentato, simil-discotecaro, nella zona “shade”. Semplice sunto di un lavoro dove Oldfield lascia definitivamente alle spalle le sonorità tubulari, buttandosi in un ambito dove ancor più che nei precedenti il rischio dello sbadiglio è forte, soprattutto perché dandosi a sintetizzatori et similia non è tanto facile riconoscere la mano sulla sua chitarra, e tutti quegli indizi che in quattro decenni rendevano le sue composizioni riconoscibili “ad orecchio chiuso”. Un solo brano cantato ("Surfing", con voce elettronica) e sola strumentalità, il più elettronica: mancanza di idee, o pigrizia? C’è una “Nightshade” in collaborazione con Schiller, strumentista tedesco che a tratti sembra essere uno dei suoi principali epigoni (pur con meno chitarra e più tastiere), e un continuo senso di “bello ma superficiale”, come di quelle musiche da mettere in sottofondo per qualsiasi cosa, ma non esattamente in grado di restare nelle teste e nei padiglioni auricolari di chi ci si avvicina. Soprattutto nella zona “light”, davvero a rischio di confusione con le anonime compilation in stile Buddha Bar: meglio nel cd più movimentato, dove se non altro in certi passaggi si riconosce la mano del Maestro. Il pregio e il difetto di tanti dischi strumentali, Oldfieldiani e non: cresce con l’ascolto, ma non sempre c’è la voglia di andarlo a riprendere in mano. (Enrico Faggiano)