SUPERTRAMP  "Breakfast in America"
   (1979 )

Sulle tracce del prog più potabile, Rick Davies – cantante e pianista – volle tentare coi Supertramp un’avventata ibridazione pop-jazz-errebì. Ci riuscì piuttosto bene con 'Crime Of The Century' (1974) e 'Crisis? What Crisis?' (1975). La formula prevedeva ambientazioni classiche e perturbazioni informali, strutture rock-blues sterzate su escursioni vaudeville, arrangiamenti mutevoli e spesso lussureggianti (ottoni, synth, organi, archi, clavicembali, corde…) attorno alla costante del piano elettrico e dello sconcertante doppio filamento vocale. Infatti, accanto al timbro da bluesman bianco di Davies, il falsetto di Roger Hodgson sembra(va) il personaggio di un fantasy acido, pifferaio schizzato dai magneti dell’altoparlante a guidarti i pensieri fino al centro della tempesta. Si possono disprezzare e anche irridere i Supertramp (è capitato, capita, capiterà), ma il loro suono è un marchio. Un merito non da poco. Mentre il punk ostentava creste leggendarie e digrignava dentature problematiche, vide la luce 'Even In The Quietest Moments' (1977): rhythm and blues capriccioso, pop con tentazioni d’assoluto, quadretti frizzanti e maliosi. Era l’antefatto di 'Breakfast In America', anno 1979. Dieci canzoni, 46 minuti circa: entrava preciso in una cassetta (erano tempi di cassette, quelli), mangiucchiando appena la coda di Child Of Vision. Un peccato madornale, però, mangiarsi la beachboysiana coda di 'Child Of Vision'. Bellissima canzone: quel riff orizzontale d’organo e synth, l’entrata della batteria come un lancio di dadi, l’incitazione di Hodgson a spingere il motore sui giusti giri, quindi i versi (tema: l’alcolismo) snocciolati con foga asprigna prima dell’inquieto allarme del ritornello, il lungo assolo di piano su stolida reiterazione ritmica. A proposito di belle canzoni, ancora meglio fa 'Gone Hollywood': esce dal niente, è un’apparizione dai sapori lontani, un piano come un treno che si avvicina, e poi subito l’abbordaggio di batteria, chitarre e voci, il sax e le tastiere come fumi misteriosi, poi quella melodia che non si decide ad essere qualcosa per poi impasticciarsi, ritornare sul tema principale e infine svicolare su un lungo, liquido assolo di sax. Sovrintende il tutto una stramba teatralità che si fa scherzosamente catchy con 'The Logical Song', cerebrale ma tenera, ricercata strategia di seduzione pop, col pungolo del piano elettrico, lo zampillare improvviso di nacchere & campanellini, la veemenza del sax, la voce efebica e angolosa. 'Goodbye Stranger' e la title track invece spandono liquore RnB schiaffeggiato da pennate ciccione e improvvise avventure prog, i Bee Gees su palchi Tin Pan Alley, l’accelerata-con-fuga del finale e il caracollare carnascialesco come dei Traffic in combutta con gli Yes. Combustioni spontanee, semplici meravigliose evidenze. Cos’altro chiedere? Nulla. Anzi, perché no? 'Take The Long Way Home', ad esempio. Pezzo in grado di rapire cuoricini sensibili, per il modo in cui sorge, un filo di luce radente nel buio vaporoso, e la zampata drammaturgica del piano. Poi quell’armonica da hobo che non ha dormito affatto, troppo impegnato a coprire la distanza lattiginosa, il passo lieve del piano come una danza sulla catastrofe delle illusioni, il dialogo frizzante tra armonica e clarino in un brodo di hammond, lo struggimento del ritornello su evanescenza di synth, e ancora lo strano finale in cui tutto pare acquietarsi, e i colori dileguano dalle cose. Ok, lo avrete capito: amo questo disco. C’è un’isola deserta nella mia prossima vita, e 'Breakfast In America' è l’undicesimo titolo che mi porterei, quello nascosto nel doppio fondo della valigia. Un disco vivido, presuntuoso, vibrante. Un disco epico e cialtrone. Un gran disco, altroché. (Stefano Solventi)