FRANCESCO DE GREGORI  "Calypsos"
   (2006 )

Non concordo con le tremende stroncature affibbiate a De Gregori dell'ultimo decennio, né con l'idea generale che il suo ultimo album degno di spessore sia "Canzoni d'amore" del 1992. E' sicuramente vero che ha fossilizzato il suo standard sull'assenza di passi avanti, ma la poesia è sovente rimasta intatta e ha riempito musiche molto più "classiche". Questo è, quindi, l'atteggiamento che mi contrappone a "Calypsos", ennesimo disco di una transizione che ammalia, almeno dal punto di vista della forza comunicativa. Niente di stupefacente, sia ben chiaro, ma giochi di gruppo sull'evergreen che spaziano da titoli lapidari su tappe di vita a stornelli di voce più nasale che mai. Francesco usa forse indebitamente il sottotitolo "9 canzoni nuove", ma mette insieme altri "pezzi" come quelli dell'anno scorso, di certo meno desertici e "americani", comunque con qualche perla sparsa qua e là. Resta molto forte anche il suo carattere ermetico che, nei brani vogliosi di versioni in prosa, lancia messaggi soggetti a molte interpretazioni: penso, ad esempio, alle parole di "In onda", in cui "vado in onda silenziosamente… Non ho vergogna sto aspettando che qualcuno mi risponda… Il mio nemico è in piedi ed io lo vedo, ride, fermo sulla sponda, ed io lo guardo e gli sorrido mentre la mia nave affonda…": probabilmente una carica di rassegnazione sulla stasi del potere costituito, sull'impotenza nel fare e sulla lucidità d'osservazione di tutti. Finché i suoi messaggi saranno così evidentemente politici, non penso possa valicare la soglia del vero declino, in quanto rimarrà sempre fedele a se stesso. Il disco scorre in modo leggero, tra ballate pianistiche a "La canzone dell'amore perduto" ("Cardiologia") e non troppo audaci tracce di power-pop ("Mayday"), mentre prova a scattare la solita fotografia di una città nella ambientale "Per le strade di Roma", dove compaiono "lucciole sulla Salaria e zoccole in Via Frattina", senza dimenticare i "ragazzi che escono dalla scuola e sognano di fare il politico o l'attore…". Mi pare un lavoro di buoni b-side , come se avesse sfogliato qualche vecchio quaderno d'appunti e l'avesse ritoccato con la penna "Replay", inserendo la figura del ladro in varie situazioni ("In onda", "Per le strade di Roma", "L'amore comunque"), mentre l'angelo luciferino della canzone omonima dichiara ipocritamente di non esserlo. Il livello medio della composizione è raschiato nei suoi picchi dai toni dimessi, infelici e arrabbiati di chi assiste a uno sfacelo attorno a sé: un po' esagerato, questo è sicuro, ma chiamiamola licenza poetica. Interessante l'uso metaforico de "La casa", intesa come luogo immaginifico e involucro di sentimenti spinosi e spezzati, quanto provvisoriamente possibilisti ("costruisco questa casa… E ci pianto quattro vigne per il vino di settembre, e ci metto la scommessa che ti voglio amare sempre…"). Il senso musicale diffuso è alquanto minimale, fatta eccezione per i cori di risposta de "La linea della vita" che interpretano il ruolo dell'anima dolce e cattiva di cui si parla. Solo qui o quasi, in pratica, si osa un piglio vagamente ecclesiastico, non proprio memorabile. Per il resto, dicevo, gli arrangiamenti sono pressoché trascurabili, manco fosse un sermone improntato sul sottofondo. Ecco, il motivo della perpetuata stanchezza melodica (questa sì) dei suoi ultimi dischi è da ricercare anche nelle ansie da predicazione, addirittura più ingenti, ma anche più sofisticate, che in passato. (Angelo Franzese)